Il principio filosofico della fotografia – Rileggendo Henri Birault

JEAN-CLAUDE LEMAGNY


Ho avuto la fortuna di essere allievo di Henri Birault in classe di filosofia. Sessant’anni fa, non molto più vecchio dei suoi allievi, Henri Birault arrivava senza nessun foglio di carta. Dettava la sua lezione, e il suo pensiero si costruiva davanti a noi, solido, senza parole inutili. Progrediva come si sale una scala, aggrappandosi via via a se stesso. Viva dimostrazione di ciò che c’è da meditare.

Henri Birault è morto prematuramente. Ho riletto recentemente uno dei suoi scritti: “Heidegger e l’esperienza del pensiero” (Gallimard, 1978). Lettura austera, di pura ontologia, (Ontologia– una delle branche fondamentali della filosofia, è lo studio dell’essere in quanto tale, nonché delle sue categorie fondamentali – Nella filosofia analitica, teoria che stabilisce i criteri di esistenza di determinate entità a partire da un linguaggio formale) ma dove tuttavia si sente sempre palpitare la sensibilità di un uomo appassionato. Birault non vi discute un solo istante di fotografia, ma ho  spesso pensato alla fotografia leggendolo. Sto per tentare qui un esercizio arbitrario e paradossale. È che sono stato profondamente sollecitato dall’incontro tra il rigore generalizzante del filosofo e la critica particolare del fotografo.

Henri Van Lier ci ha avvertito: non c’è niente di più contrastante che tra ciò che vi è di più loquace, un filosofo e quanto vi è di più muto, una fotografia. Ma questo contrasto stesso offre una bella occasione di filosofare, di trovarsi davanti a una tensione tra il ragionamento basato sulle idee e la verginità delle cose.

Il pensiero – ci dice Henri Birault – è esposto a tre pericoli:

Il primo è la concorrenza che gli fa un discorso parallelo, quello della poesia e dell’arte, spesso più di esso in prossimità della verità. Ecco “un danno buono e salutare”.

Il secondo, che il pensiero autentico ha spesso da rivoltarsi contro se stesso, da mettersi in dubbio. Cosa che gli rende il percorso difficile, “pieno di malignità”, che deve tuttavia accollarsi.

Il terzo, che il pensiero ha troppo spesso tendenza a compiacere se stesso, orgoglio mal posto che fa i cattivi filosofi.

Daniel Nonnemacher – Adventices Formes, 1990

Ma chiacchieroni i filosofi non possono evitare di esserlo. Cercherò qui di tenermi il più vicino possibile al primo danno, quello dell’arte, perché nella fotografia – che ha ben altri meriti – mi interessa ciò che possa avere dell’arte. In questo caso devo sapere per prima cosa “che la bellezza non presuppone né produce alcun bisogno. Essa non soddisfa alcuna inclinazione, ed è libera di ogni desiderio antecedente o successivo… “Il piacere estetico è un piacere finalizzato a se stesso senz’altra considerazione… Tuttavia non bisogna pensare alla bellezza in termini di piacere, ma piuttosto in termini di splendore” (Henri Birault).

Ma ecco, avvertito della strada che ho scelto di prendere, le fotografie possono essere guardate attraverso questa rinuncia e in questo entusiasmo. Ma, tra le arti, esse offrono il caso di un’arte messa in disparte, di un’arte non come le altre. Prendiamo questa situazione come un vantaggio perché permette una distanza da dove poter considerare l’arte e ciò che essa è.

Per prima cosa questo fatto che la fotografia – a differenza delle arti del disegno – è un sorgere che niente precede. Anche se il fotografo ha scelto il suo oggetto e calcolato i suoi parametri, quest’oggetto sorge nell’immagine con un aspetto imprevisto, sempre in più o meno grande differenza con ciò che ci si aspettava. Certamente “questo è stato” (Roland Barthes) , ma questo non era questo. “Volete vedere qualche cosa in un modo fantastico – ci dice Jean Grenier – guardatelo in uno specchio”. Una fotografia guarda sempre quest’aspetto fantasmagorico, anche, e soprattutto, se è molto realista. Tagliata dal tempo che scorre e dalla realtà che dappertutto ci circonda, una foto è un’apparizione.

Un pensiero molto importante nel libro di Henri Birault, al seguito di Martin Heidegger, è che il porsi le domande non è il primo inizio del pensiero. Certamente non c’è filosofia senza interrogativi, “Interrogarsi” è la pietà del pensiero” (Martin Heidegger), ma esso presuppone che già qualcosa è apparso che si possa interrogare. Quando diciamo “c’è qualche cosa”, il “qualche cosa” è già un giudizio che formuliamo, un embrione di concetto. Ciò che è veramente prioritario e dapprima necessario è il “c’è”. E nel “questo è stato”, caro a Roland Barthes, il “è stato” è già un’opinione, e suppone un concetto del tempo. È il “questo” che è fondamentale e che ci dà d’amblée una foto, prima di ogni altra cosa. Ciò che sgorga, che sorge in una foto è l’occasione per il pensiero di afferrarsi esso stesso nella freschezza e nella sua natura ancora non inquinata. Perché “ogni pensiero autentico è pensato su qualche cosa che c’era prima” (Henri Birault). Noi aggiungiamo qui il filosofo Max Loreau: “Prima dell’apparizione di ogni forma e di ogni figura costituita, si rivela la venuta al giorno del mondo, e ancora prima, la condizione di possibilità di ciò che è in generale. Si tratta di mettersi all’origine della forma emergente, al posto della nascita del reale” (Max Loreau). Senza che si sia letteralmente parlato di fotografia, vediamo quante parole, quali “apparizione”, “si rivela” e “venuta al giorno”, la evocano.

Ma la fotografia

 

 

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