PREFAZIONE
Mancava poco al mezzogiorno del 6 gennaio 1873 quando Alessandro Manzoni, salendo la gradinata della chiesa milanese di San Fedele, incespicò. Cadde e batté la fronte. Dopo essersi sollevato, si accorse che sullo spigolo di uno dei gradini di marmo era rimasta una macchia rossa del suo sangue. Si sentì quasi svenire ma si fece forza: l’importante era allontanarsi da quel luogo, per lui eufobico, prima che la vertigine che già sentiva salire lo facesse rimanere inchiodato lì.
Si premette un fazzoletto sulla ferita, e con gli occhi aperti, quel tanto che gli fosse permesso di vedere dove metteva i piedi, Manzoni, raggiunse la via del Morone, dove abitava da sessant’anni. Si lamentò a lungo, con i suoi familiari, come faceva ogni volta che un guaio lo colpiva. Si volle mettere a letto con il capo fasciato. Più tardi, sentendosi risollevato, ricevette gli amici che erano stati invitati per la conversazione. Dovette dir loro che a ottantasette anni e per di più con una forte botta in testa, non andava poi così male.
Fu invece la fine triste e dolorosa. La mattina del sette di gennaio, ascoltandolo, gli intimi si resero conto che Alessandro non era più lui. La memoria, spesso definita prodigiosa, si era arricchita di lacune. Quasi a bilanciarne le ombre, repentine luci si accendevano nella mente del grande sofferente. Erano immagini e voci che raggiungevano l’uomo all’estremo del suo cammino e ne distruggevano la serenità.
«Temo che in punizione della mia antica miscredenza, mi venga qualche pensiero contro la Rivelazione». «Ecco quel che io mi domando: il Perdonatore mi avrà perdonato ogni cosa?». Parlava da solo vagando per la casa come un’anima in pena e, giorno dopo giorno, i fantasmi aumentavano e si ingigantivano.
Rammenti, Alessandro, il giorno in cui ti dissero che non eri il figlio di don Pietro Manzoni ma di Giovanni Verri, il primo dei due amanti di tua madre? Perché tacesti, pur sapendo che tutti assai prima di te avevano saputo, e ti adattasti sempre all’indegna commedia?
Ricordi la serva di casa tua, ventenne, la disputasti a Luigi Arese, a quel tempo compagno delle tue scelleratezze? Sono passati tanti anni… Ma almeno dovresti ricordare la creatura che quell’infelice diede alla luce.
Di, «splendido signore» come sta scritto sulle lettere che ricevi, era maschio o femmina?
Ricordi l’estate che i figli di tuo figlio vennero a trovarti in villa per muoverti a compassione e tu a stento li degnasti di uno sguardo?
Nel suo tetro delirio in cui si accusava anche di colpe non sue, Manzoni si destò solo ai primi di maggio, e per poco tempo. Quello che apprese, cioè la morte del figlio prediletto Pietro, avvenuta il 28 aprile, ripiombò la sua mente nella desolazione. «Oggi, disse il maestro in un estremo momento di lucidità, mi è rinvenuto in senno, ma mi è venuto un gran dolore».
Manzoni morì la mattina del 22 maggio 1873, dopo essersi confessato con don Vitaliano Rossi. Aveva ottantotto anni, essendo nato il 7 marzo del 1785. Inspiegabilmente, la lunga e penosa agonia non aveva segnato il suo volto, che la morte fermò con un’espressione distesa.
Le esequie furono solenni. Da tutto il mondo sovrani e uomini politici, letterati e semplici lettori inviarono parole di cordoglio per la scomparsa del creatore d e “I Promessi Sposi”.
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Tutta l’Europa, possiamo dire, attraverso i suoi maggiori esponenti si inchinava davanti a Manzoni, le attestazioni di stima, ma non se ne lasciava estasiare. Per lui il libro era «una bazzecola» o, a volere essere generosi, «una filastrocca».
Che avesse fatto «tanto fracasso» e che tanta gente ne parlasse era una «scoperta inattesa».
Accanto all’uomo schivo degli onori e fin troppo modesto, ci sembra però interessante indicarne un altro: il Manzoni insofferente delle critiche, lo scrittore che leggeva fino in fondo le lettere d’insulti e poi le gettava nel caminetto con stizza, impaziente di distruggerle per non correre il rischio di onorarne gli autori con una sia pure tagliente risposta.
Emilio Radius riportò in quella sua Vita di Alessandro Manzoni così penetrante e fitta di aneddoti rivelatori, un fiorilegio degli «insulti» ricevuti dal poeta. Non sono le frecciate di Carducci o di Settembrini, ma quelle dei «minori» e addirittura degli anonimi. Quelle, cioè, che Manzoni non poteva sopportare.
Federico Balsimelli: «Manzoni è il caposcuola dei moderni scribacchiatori. Non scrive da letterato, ma come scriverebbero i carrettieri e i facchini, da pescivendolo, da uomo senza giudizio, da fagotto, scelleratamente; non possiede punto l’arte dello scrivere. È uno scrittore senza costrutto, nuvolos0, che nessuno è in grado d’intendere…».
Paolo Costa: «I Promessi Sposi! Niente più che un romanzo di genere falso e ultramontano».
Felice Romani: «Questo Manzoni pecca d’invenzione, di condotta di caratteri, di stile…».
Un tale arrivò a scrivere a Manzoni indirizzando la lettera «All’illustre Giuseppe Manzoni»; un altro fece sapere al poeta che la lettura dei Promessi Sposi gli era costata «molto tempo, gran pazienza e noia»; un altro ancora lo rimproverò con un benevolo: «Caro il mio Alessandro, e dove avete messo il senno?».
Come si vede, niente cambia al mondo: gli schiocchi prosperavano e scrivevano anche 150 anni fa.
Ognuno sa quanta fatica costò a Manzoni scrivere il suo capolavoro. Sbocciata nella mente del poeta nel 1821, la storia di Renzo e Lucia assunse la forma nella quale la conosciamo solo tra il 1840 e il 1842, allorché Manzoni stampò e vendette per proprio conto l’edizione definitiva del romanzo…
[…]
Quello che oggi sembra certo, è che Manzoni soffriva di agorafobia, come l’angoscia e le vertigini da cui veniva colto nei luoghi aperti stanno a confermare. Impossibile invece è stabilire fino a che punto l’agorafobia di «don Lisander» fosse grave, e perché talvolta egli ne soffrisse con evidente, se pure inconfessato, compiacimento.
Ci fu un periodo intorno al 1861, l’anno della morte di Teresa Stampa in cui ascoltare Manzoni parlare delle sue infermità dovette essere una tortura. Vien quasi da pensare che il vecchio poeta, esasperando le malattie di cui soffriva, combattesse l’irrazionale e tuttavia cocente rimorso d’esser sopravvissuto a tanti dei suoi cari.
Forse era così, forse no. Agorafobia e crisi di nervi a parte, dal 1865 in avanti l’ingegno sublime di Alessandro Manzoni si offusco. La villa di Brusuglio divenne sempre più spesso il rifugio di un uomo il quale non amava dare spettacolo del proprio decadimento fisico, che l’ottundersi dello sguardo rivelava procedere di pari passo con quello della mente.
Solo la memoria, rimanendo caparbiamente lucida, rendeva sopportabile al poeta la «floscia decrepitezza». Gli permetteva di fare confronti e di giudicare, di ricordare con gli amici il tempo andato: di vivere.
Poi, il 6 gennaio 1873 (la caduta sulla gradinata della chiesa di San Fedele) privò il poeta anche dei ricordi. «È inutile, è inutile: non son più io». Fu con queste parole che Manzoni sprofondò nella lunga e terribile agonia…
Benedetto Mosca
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