POESIE
La società, o figlio, è come un fiume – Con ali di farfalla – Ora non ci perdiamo più tra i filari – Atreo non è morto
Licia Cardillo Di Prima è nata a Sambuca di Sicilia dove vive e lavora. Docente di Lettere, giornalista pubblicista, direttrice de “La voce di Sambuca”, è autrice del romanzo storico Il Giacobino della Sambuca (Editori Riuniti, 2000) «Premio Anteka Erice 2003» e della raccolta di racconti Fiori di aloe (1997). Ha curato l’adattamento teatrale delle Storielle siciliane di Emanuele Navarro della Miraglia e, per la Guida Sapori e fragranze delle Terre Sicane, «I luoghi e le leggende». Ha collaborato con il Mediterraneo e con La Repubblica (edizione siciliana). Per il saggio Un amore di quattro secoli fa – Marco Antonio Colonna ed Eufrosina Corbera, le è stato attribuito il «Premio Parnaso 2004» promosso dalla Fondazione Leonardo Sciascia di Racalmuto, da Kairos e da Canicattì. Al romanzo, Tardara (Editori Riuniti 2005) sono stati assegnati i seguenti premi: «Anteka Erice 2005», «S. Giustino de Jacobis XI Edizione» e la Menzione Speciale del «Premio Parnaso Canicattì 2006».
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LA SOCIETÀ, FIGLIO MIO, È COME UN FIUME
La società, o figlio, è come un fiume
con mille e mille gocce disuguali.
C’è spazio anche per te nel suo fluire.
Non esser come un tronco alla deriva
che, a capriccio, si mette di traverso
o una perla sepolta nel fondale
o una roccia che ignora la corrente.
Sii come giunco che si piega all’onda
candida vela che dirige il vento
faro di luce a chi non sa vedere.
Non aspettar la piena o la risacca
er formare con gli altri una catena,
ma, pur nella bonaccia, dai la mano
e assieme agli altri corri verso il mare.
Poesia selezionata su Rai 1 “Popolo di poeti” nella trasmissione di Pippo Baudo
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Ha pareti di lino la mia cella
e grata di sottili filigrane
d’azzurro spento che non so se è cielo<
Dal burqa il mondo appare così grande
che non posso inquadrarlo in uno schermo
ma neanche tu che mi hai chiuso dentro
hai delle cose una visione chiara
Non puoi vedere se amo godo rido
se piango impreco grido oppure t’odio
Dalla prigione tua senza confini
insegui folli sogni di dominio
mentre io con ali di farfalla lievi
le labbra rosse come fuoco vivo
gli occhi neri di rimmel e di ombretto
il fard color sangue sul mio viso
volo là dove travestirsi è gioco
e agli stolti si fanno gli sberleffi.
Alle donne prigioniere
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ORA NON CI PERDIAMO PIÚ TRA I FILARI
Vespe e farfalle tessevano danze e canti d’amore
tu intrecciavi per me diademi di tralci
e sulle mie labbra spremevi uve mature
per berle con me
Erano i giorni del fuoco
E il fuoco correva sui pampini,
lungo i filari fino al tramonto fino al greto del fiume
sui campi di stoppie
il lago incendiava
il mare là in fondo
e bruciava le vene
I papaveri erano coppe colme di sogni
e le nuvole ali giganti di gabbiani imbrigliati a carri infuocati<
montagne
castelli incantati
forzieri d’oro e corallo
e le vigne tappeti volanti
letti di seta che fremevano al vento.
Dai tralci
gli acini
gemme dorate rosate di ambra
pepite d’argento,
distillavano miele
la tua bocca parole più succose del mosto
Erano i giorni del canto, della frenesia, dell’ebbrezza
Io alla vampa bruciavo le ali e non sentivo dolore.
Poi vennero i giorni del vuoto
Le coppe rimasero nude come le ore,
nude come i tralci di vite.
Fuggirono farfalle vespe e gabbiani
i castelli di nuvole divennero tetri
gli acini grani di nulla
Al ritorno spillasti la bottiglia migliore
Il vino rosso rubino, un Syrah invecchiato in cantina,
tinse le tue e le mie labbra e scaldò la memoria.
Ora non ci perdiamo più tra i filari
Il fuoco lo attizziamo col vino maturato negli anni.
Ha dentro la tempesta i profumi del bosco l’amore
e persino il dolore.
Ha dentro la vita
E tu continui a berla con me.
A Gaspare, compagno della mia vita
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Quando le colpe dei padri ricadono sui figli.
Veleggia l’aerea conchiglia
Come un tappeto volante naviga
a ritroso nel tempo
nell’aria mite del crepuscolo
nel bagliore allucinante
tra le nuvole
Fuma l’incenso
ardono i fuochi
l’arcano aleggia nell’aria
È di scena il Mistero
Il furore infernale morde il cuore
lo strazia
lo incendia
Uccide gli dei
Nella Reggia di Tracia
arde Atreo
di cupa follia
infuria
incrudelisce
geme vendetta
Ai figli di Tieste cinge il capo
di bende purpuree
intona canti di morte
con mano furente lorda il ferro di sangue
All’empio misfatto
si spegne l’altare
inorridisce il cielo
al pasto immondo
Urla e geme Tieste
La notte pietosa
di tenebre
vela l’atroce delitto
Sull’Isola
veleggia l’aerea conchiglia
scopre l’abisso
a Capaci
la strada strozzata
che vomita sangue
le attorte lamiere
i fiori di ferro
svela la mano
del mostro
che strozza
il bambino
lo squarta
nell’acido ne scioglie
le tenere membra
Atreo non è morto
Pietosa
nasconde
la notte
l’urlo di madre
Ardono i fuochi
stride la carne
È di scena l’inferno.
Poesia per Giuseppe Di Matteo, piccolo martire, ispirata da “Il Tieste” di Seneca al Teatro di Segesta.
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