POESIE
Maggiu d’amuri – Suli d’invernu – Sicilia – Primu di maju – A la Sicilia – Ammenzu li voschi – Taurmina – Sempri di notti – Notti di tempesta – Tra lu silenziu – Palummi
Gaetano Bellia – nacque a Motta S. Anastasia (Catania) il 19 febbraio 18%; morì a Catania il 4 maggio 1961. Ferroviere, cominciò a poetare fin dall’età di dieci anni, ispirato dai canti di Carmelo Caruso e di Giuseppe Nicolosi Scandurra, poeti di forte natura popolare. Concittadino del tenore Giuseppe Di Stefano ne ha sempre sostenuto il valore. Non ha mai pubblicato poesie in volume, e questo libro esce postumo.
Per mio padre, la poesia era sempre stata, assieme alla famiglia, il motivo primo di vita. La poesia lo possedeva in qualsiasi momento: durante le campagne di guerra, durante il lavoro e durante le ore libere. Durante il lavoro, non appena il tempo glielo permetteva, scriveva sul primo pezzo di carta che gli capitava sotto mano, i versi che lo avevano ispirato:
stu mumentu vogghiu scriviri
carta e sensu s’hannu a moviri
Anche le ore libere dedicava alla poesia intrattenendosi, a discutere dei versi composti, con altri poeti contemporanei: Giuseppe Nicolosi Scandurra, Cicciu. Manna, Girolamo Ferlito, Saru Lizio, Giovanni Isaja, Francesco Spampinato, Paolo Toscano, Pippo Pulvirenti, Pippo Cacopardo, Santo Battiato, Francesco Buccheri (Boley), Serafino Giuffrida, Alfìio La Rosa ed altri che rappresentavano la élite della poesia dialettale catanese.
Mio padre si interessò attivamente alla vita della poesia dialettale siciliana pubblicando numerose poesie su giornali come «Lei è lariu» e «Po’ t’ù cuntu». Sue poesie furono pubblicate anche in antologie di poeti quali: Antologia di poeti siciliani (seconda edizione del 1931) a cura del «Popolo di Sicilia»; Strenna della poesia dialettale siciliana (volume primo del 1937 e volume secondo del 1938) a cura di Vincenzo De Simone e Giuseppe” Pedalino; Antologia dei sonetto siciliano (1948) a cura di Salvatore Camilleri. Partecipò a diversi concorsi di poesia il più delle volte vincendoli o classificandosi ai primissimi posti.
Quanto ho detto in precedenza è stata la molla che mi ha spinto, finalmente, dopo anni di impegno, a riunire in un unico volume l’opera poetica più significativa di mio padre. L’ho fortemente voluto, per non lasciare nel dimenticatoio un’opera che ritengo meriti di essere conosciuta e non destinata a scomparire. Tutto questo in memoria di mio padre, con l’affetto del figlio, orgoglioso dei grande patrimonio spirituale da lui lasciato.
Aspra, 19 settembre 1988
Sugnu ccà cu Ninu Bellia, figlio di Gaetano Bellia poeta ca iu canuscivu e mi fu amicu. Era il periodo fascista e Gaetano Bellia faceva parte del gruppo di poeti vicini a Vincenzo De Simone, che fu per un certo periodo fascista.
De Simone resta nella poesia tradizionale siciliana per la sua classicità e ricchezza di vocabolL Per Gaetano Bellia bisogna dire invece che fu poeta che lottò clandestinamente il fascismo come faceva Renato Guttuso; e Carlo Levi lo cita nel mio libro La peddi nova.
Scrive Carlo Levi: «Buttitta lo conobbi tanti anni fa quando Guttuso, che è suo compaesano e amico d’infanzia, usava andare recitando la sera il suo poemetto satirico antifascista Sariddu lu Bassanu, accentuandone, con la recitazione, la ripetizione e il variare del ritmo, il carattere di canto e di ballata popolare».
Lo stesso certamente faceva Gaetano Bellia se ha scritto la poesia Mi eva ‘mmucciannu che qui riportiamo. li ricordo mi commuove, a pensarlo morto; sarebbe qui con me e con suo figlio Nino a recitarci la poesia, e noi a ricordare la dittatura ed il fascismo nella speranza che un mondo più giusto e umano trionfi.
Ignazio Buttitta
PREMESSA
Non era raro ancora negli anni cinquanta – per la scampagnata di Pasqua e di Natale, o per il primo di maggio, oppure in occasione di altre festività o ricorrenze imbattersi in qualche trattoria fuori di mano, a San Giovanni Li Cuti, per esempio, o al Carabiniere di Fontanarossa o alla Fossa Creta, e trovarvi un gruppo numeroso di poeti attorno a un ampio tavolo. Si mangiava, si beveva, si facevano brindisi e alla fine, uno alla volta, a cominciare dal più piccolo per finire al più grande, i poeti si avvicendavano a recitare versi, tutti con grande valentia, con dizione chiara e accattivante, ora drammatica ed ora comica, a seconda dei contenuti.
In quegli incontri, che costituivano, oltre che un divertimento, una vera scuola, l’università della poesia del popolo, i giovani recitavano e si mettevano in vista, ma soprattutto ascoltavano, imparavano il mestiere, acquistavano perizia nel comporre i loro versi, metr ’72-mente sempre inappuntabili. Vi troneggiavano i poeti di grande fama, Giuseppe Nicolosi Scandurra, ad esempio, inteso il poeta contadino, il più conosciuto, di cui tutti ricordavano i trionfi milanesi del ’27 e l’edizione delle sue più belle poesie da parte di Treves, allora il maggiore editore italiano; ma anche Santo Battiato, dalla maschera greca, poeta pure estemporaneo e di grande valore; e Vito Marino, la signorilità fatta per sona, calzolaio fino ai quarant’anni, poi bidello all’Istituto «De Felice» per meriti letterari. E tanti altri, Saro Lizzio e Pippo Forenze, i fratelli Castorina e Alfio La Rosa, Carmelo Fichera e Ciccio Manna.
Gaetano Bellia, un ferroviere amico e seguace dello Scandurra, era uno dei più calmi e rispettosi, sempre al proprio posto. Ma, chiamato a recitare, vi otteneva successi di prestigio per l’immediatezza del canto e la spontaneità della sua poesia, per il tono popolaresco della sua versificazione, spesso giocata tutta sulla consonanza atona, che allora rappresentava una bravura, una difficoltà strumentale che solo i più smaliziati nell’arte riuscivano a padroneggiare.
Quei versi di Gaetano Bellia, così orecchiabili, di una spontaneità quasi estemporanea, sarebbero andati perduti se il figlio Nino non li avesse raccolti con amore, ma anche con orgoglio e – collaborato da due straordinari poeti di popolo, Ignazio Buttitta e Turiddu Bella – non li avesse ,pubblicati per la gioia di coloro che amano le cose semplici, di coloro che amano la poesia dei popolo.
Salvatore Camilleri
RICORDANDO GAETANO BELLIA
Domenica 8 maggio alle ore 10, si è tenuto al Circolo «Arte e Folklore di Sicilia» di Catania il settimanale incontro sulla poesia. siciliana. Il tema della conferenza era «Gaetano Bellia e la poesia siciliana negli anni Trenta e Quaranta». Ha parlato il prof. Salvatore Camilleri intrattenendo il numeroso pubblico, che è anche intervenuto a conclusione dell’incontro, con pertinenza e competenza. L’oratore si è soffermato innanzitutto sugli anni Trenta, caratterizzati dal parnassianesimo siciliano impersonato da Vincenzo De Simone, maestro inimitabile e di straordinaria perizia formale. In questo periodo la poesia siciliana non brillò certamente per i suoi contenuti, peraltro soffocati dal particolare momento storico, ma riversò tutta la sua attenzione nella forma elegantissima e perfetta, dal verso sapientemente costruito.
Gaetano Bellia, dopo la prima esperienza popolare, si formò in questa temperie, accanto a Giuseppe Petringa e a Salvatore Roberto, a Carmelo Danese e ai fratelli Castorina, a Francesco Spampinato e a Pippo Puivirenti e a tanti altri ancora. Il suo verso, sempre armonioso, si compiaceva spesso di assonanze atone, peculiarità della poesia popolare, primo amore del Nostro, e prendeva vigore da contenuti della buona tradizione siciliana, legati alla famiglia, all’amicizia, alla religione, insomma a quei valori che costituivano gli ideali dei popolo onesto e laborioso di Catania.
Negli anni Quaranta la poesia siciliana, soprattutto per merito dei giovani, fu attraversata da fremiti di rinnovamento, dalla rottura dell’armonia tradizionale della metrica, da nuove formule che si chiamavano simbolismo, analogia, metafore continuate, e Gaetano Bellia si sentì come Spaesato, ma non si perse d’animo. Continuò per la sua strada senza ‘ badare più di tanto a quello che predicavano gli innovatori, pago dei suoi ideali e dei suo endecasillabo dalle cadenze tradizionali.
A conclusione dell’incontro sono stati letti parecchi sonetti dei Bellia, commentati da Enzo D’Agata. Era nato a Motta Santanastasia nel 1896. ma si era trasferito ancora giovane a Catania, dove aveva lavorato nelle Ferrovie. Continuò a scrivere poesie fino agli anni Sessanta. Morì senza raccogliere in volume le sue poesie, cosa a cui sta attendendo il figlio Nino con nobile gesto filiale. Gaetano Bellia era stato uno dei primi ad accorgersi dei genio musicale del tenore Giuseppe Di Stefano e si era battuto con grande impegno per agevolare l’ascesa al giovane compaesano.
Carmelo Di Giovanni
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Partinu ppi lu pàsculu l’armenti,
mentri lu suli spunta di livanti
e la natura canta allegramenti
pirchi ha trasutu lu misi brillanti.
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Nesci lu suli, beddu e stralucenti,
‘nciamma li cori di paci e d’amuri;
puru ‘stu cori ‘nciammatu si senti
‘nta maggiu risplinnenti e ‘ncantaturi.
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Tutti l’aceddi stannu cuminciannu
viloci, lu travagghiu di li nidi,
di rama in rama svulazzaliànnu
e ‘nsemi ad iddi la Natura ridi.
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Si senti lu prufumu di li ciuri,
‘mmenzu a li campi o dintra li jardini,
sentu cantari canzuni d’amuri
di li pasturi e di li cuntadini.
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Un incantu la notti su’ li stiddi,
quannu lu celu d’iddi è puntiàtu
‘ncanta la terra ccu li so’ ciuriddi,
maggiu d’amuri, di tutti cantatu.
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Quann’è ca spunti tu, tuttu fumìa,
asciughi li jlati e non addumi,
ma duni a li pianti calurìa,
crisci li giuri ppi fari prufumi.
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Sciogghi la negghia, porti la chiarìa,
ppi tutti li vìventì sì lu lumi;
ppi l’esistenza to, la terra mia
fa li frutti cchíù ricchi di duciumi.
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Tuttu l’argentu ca la luna cerni
si tu, suli dInvernu, ca lu manni
e mustri l’astri di li celi eterni.
Tu agévulí li giusti e li tiranni,
tu l’apparatu còsmicu guverní:
tu si, a stu munnu, la cosa cchiù granní.
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u si vasata di tri granni mari
ca stringínu lu corpu e li capiddi,
dì ‘na luna d’argentu e tanti stiddi,
d’un suli d’oru ca ti fa briliari.
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Sì prufumata di tanti ciuriddi
ca li culuri so’ fannu ‘ncantari;
beddi li munti to’, vaddi e cíumari
ca ti dùnanu baci a li masciddi.
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Vigni ca fannu li cchiù megghiu vini,
tu li pruduci li cchiù megghiu aranci
ed autri frutti prílibati e fini.
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E di li beni tò ni duni e manci;
sùrfuru e sali c’è ntra li to’ vini,
l’ogghiu d’.oliva ccu l’oru lu scanci.
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Primu di maju, jomu ‘ncantaturi,
oggi tuttu lu munnu fai cantari;
facemu festa li lavuraturi
macari c’un avemu cchi mangiari.
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Tu svigghi munti, vaddati e chianuri,
svigghi l’acqui e li pisci di lu marí;
omini e donni li menti in amuri,
li peni di la vita fai scurdari.
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Di tutti li pueti si cantatu,
di tanti musicisti e di scritturi,
e nessunu ti leva lu primatu.
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Ccu li tò campi allinchiuti di ciuri,
l’interu munnu teni prufumatu,
e di sta terra sì veru pitturi!
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Fina ca moru, notti e jornu cantu
pri la Sicilia mia, terra nativa,
pri lu to mari, li jardini e quantu
vini pruduci, ménnuli ed aliva.
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Tu sula nta stu munnu si lu vantu
di sùrfuru e di sali, si surviga.
Ti chiamu, matri mia, terra d’incantu
ppi lu to celu e l’aria salutiva.
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L’Etna, ‘mmenzu a tia, fuma, patruna;
sta sempri virdi e janca in ogni latu,
ma certi voti, disturbi ni duna.
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jù, comu ‘n-figghiu to affiziunatu,
cantu, finu ca moru, pri la cruna
ca la natura eterna t’ha lassatu.
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Ammenzu li voschi, comu l’animali,
cchi peggiu di li jeni e li liuni,
privu d’amuri, carizzi e vasuni,
senza vìdiri e léggiri un giurnali!
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L’aceddi d’ogni speci, a miliunì,
supra arvuli e chianuri di sipali;
tuttu, zoccu si vidi, è naturali,
lamintusi li gerghi e li canzuni.
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Ti raccumannu, preja lu Signuri,
tutti li jorna, senza mai stancari,
si mi voi beni, fammi stu favuri.
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Siciliana mia, fammi turnari!
Tu lu cumprenni cchi voldiri amuri,
tu sula, bedda mia, mi poi salvari!
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Aprili, aprili, misi ‘neantaturi,
tu svigghi l’acidduzzi e fai cantari,
svigghi li munti, li vaddi e chianuri
e menti ‘n-festa li pisci, nta mari.
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Tu omu e donna porti nta l’amuri,
li peni e li duluri fai scurdari,
tu duni a tutti li primi caluri,
si tu lu misi ca ni fai íncantari.
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Di tutti li pueta si cantatu,
di granni musicisti e di scritturi,
pirchì rinnovi tuttú lu criatu.
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Quannu ritorni tu ccu li to ciuri,
ritorna in ogni pettu vita e çiatu
e tutti in festa tornanu li giuri!
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Taurmina, cu’ varda li to alturi,
lu virdi ca t’ammanta ccu li çiuri
e, a li to pedi, Giardini e lu mari,
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si senti ‘n-cori ‘na çiamma d’amuri
e lu to munti vulissi acchianari;
tu di granni pueta e di pitturi
ti fai sempri discriviri e pittari.
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Ccu la to luna, ca ti vasa ‘n-frunti
ffinsemi a li stiddi, di ccà sutta, pari
ca su pusati supra lu to munti.
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Siculu ‘ncantu, ti lu poi vantari
si un locu tali ca non ha’ cunfrunti
e fa li furisteri ‘nnamurari!
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Sona l’avimmaria; ppi l’autri scura,
ppì mia vidu ca signa l’alba ora;
nta la scurusa notti, ppi lustrura,
ccu na lanterna fazzu lustru fora.
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Trenta notti ‘nta ‘n-misi, mancu un’ura
provu lu sonnu e nuddu mi ristora;
pensu lu lettu e tanta cuvirtura,
ma lu friddu li carni mi trafora…
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E scinnu e acchianu sempri, comu un cani
e grapu e chiudu l’acqua e soffru peni,
di la sira pri affinu a l’innumani.
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Lì duri notti cangianu li sceni:
lu trenu lassa e pigghia munti e chiani,
e lu panuzzu miu di ccà mì veni!
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Lu celu è tuttu fittu annuvulatu,
fa lampi, trona, ventu e chiovi forti;
puru li pianti provanu scunforti
e a li viventi manca forza e giatu.
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Sù tutti chi-usi li finestri e porti
nun si vidi un balcuni illuminatu,
ed ju, suliddu, affriddatu e bagnatu,
mi sentu nta li vrazza di la sorti.
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Mi trovu dintra ‘na nica garitta
ca di li ‘ngagghi acqua e ventu trasi,
non mi pozzu vutari pirchì è stritta.
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Si vidi comu un mari la chianura,
l’arvuli su’ sbattuti a manca e a dritta
dì la putenza dì matrì Natura!
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NTRA LU SILENZIU
Tuttu in silenziu è stu solu amatu,
nuddu si movi di sti genti scuri;
lu suli coci l’arvuli e lu pratu
e lì viventi cancia di culuri.
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L’armenti sunu privi di l’aratu,
vardati di li nìuri pasturi;
l’aceddu, d’ogni speci, sta pusatu
e fra li campi non c’è granu e giuri.
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Non sentu nta lu pettu lu duluri,
pirchi c’è fermu puru lu me cori
luntanu di lu sìculu sbrínnuri.
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Vurria sintiri li duci palori
i la famigghia mìa, unicu amuri,
ca, ppi sta luntananza, soffri e mori!
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Palummí grossi e nichi, cchi mangiati
quannu frummentu ‘n-terra non n’aviti?
Di supra li canali taliàti
e di fami muriti e di la siti.
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Li genti di stu munnu sunnu ‘ngrati,
non ni séntinu pena, si muriti;
iù vi cunsigghiu: girati, vulati,
ca, si vulati, mangiati e biviti.
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Lassati la cità, jiti ‘ncampagna,
truvati cibu quantu ni vuliti,
‘mmenzu li chianì, nta vaddi e muntagna.
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Si mangia carni, so spàranu bummi,
sona la banna, si fa festa granni…
Ppi vui spaventi c’è, cari palummi!
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