POESIE
Essere nero – Con me – Dipingere un quadro – Notturno – Monte Mario – L’alba – Tristezza – A mia madre – La creazione – Lettera – S.T. 1 S.T. 2 – Ecologia – Lo scacciapensieri – Battipaglia Aprile 1969 – Anniversario di Jan – S.T. 3 – Sssst – S.T. 4 – S.T. 5 – S.T. 6 – S.T. 7 – Ancora da Battipaglia – S.T. 8 – A Silvana Elia
Cerruto Emanuele – Nato a Modica il 24 ottobre 1946, ma ha vissuto per molti anni a San Cataldo, grande centro agricolo della provincia di Caltanissetta. Dopo avere sperimentato diversi ordini di scuole (umanistica, tecnica, commerciale, ecc.) ha trovato nella Scuola d’Arte il tipo di cultura più congeniale al suo temperamento e ai suoi ideali.
Nell’Istituto d’Arte “F. Juvara” ha conseguito il diploma di maturità artistica con ottimi risultati rivelando spiccate qualità di gusto e di tecnica. Ha realizzato molte opere pittoriche estrose ed originali, ma la sua vocazione fondamentale e alla quale si è dedicato con entusiasmo è la poesia. Ha scritto sin da adolescente, senza mai preoccuparsi di pubblicare i suoi lavori, quasi obbedendo ad un richiamo interiore irresistibile e fascinoso.
Con gli schemi comuni è difficile definire il carattere della sua produzione artistica nella quale si intrecciano motivi morali, sociali, lirici, ironici e talvolta dissacranti, ma si sente alla prima lettura che essa è poesia nuova, poesia di rottura, ribelle a tutti i canoni della tradizione letteraria e poetica. Ha studiato Giurisprudenza, facoltà da lui scelta per un vivo interesse ai problemi giuridici e sociali del nostro tempo, interesse che, costituisce il supporto concreto della sua arte. Muore giovanissimo ed in modo tragico, forse per questo suo spiccato interesse verso i problemi del nostro tempo, barbaramente freddato con colpi d’arma da fuoco all’uscita della Banca “G. Toniolo” a S. Cataldo (Cl), lasciando una donna sola, con una bellissima bambina; l’opuscoletto da cui ho tratto alcune delle poesie si titola “Seduto sul pianeta” ed è dedicato appunto alle sue due donne che lui stesso definisce «A mia moglie, valorosa compagna, ed a mia figlia, robusto fiore di montagna».
INTRODUZIONE CRITICA
La maggior parte dei critici che parla di poesia oggi, in un secolo che ha mutato fisionomia a tutti gli aspetti e alle prospettive della cultura e della vita sociale e morale, è purtroppo ferma alle posizioni romantiche del secolo scorso.
Questa nostra affermazione, non vuole essere un giudizio di condanna sui valori estetici e romantici dell’Ottocento, tanto ricchi peraltro di meriti e di conquiste incontestabili e definitive nel campo dell’interpretazione artistica, ma esprime solo l’esigenza di rivedere in chiave moderna i canoni preposti alla guida di quanti s’interessano all’arte in genere e alla poesia specialmente.
Essi sono stati sino ad oggi la soggettività e l’irrazionalità, nel senso che l’arte vera, l’arte pura, non può che essere espressione dell’individuo che vive nel segreto del sito mondo solitario ed astratto e che, come tale, non obbedisce e non deve obbedire a norme comuni di logica e di razionalità e tutto s’affida alla paradossalità d’un mondo che non ha riscontri col mondo reale.
L’individuo che vive ed opera e perciò scrive con la coscienza di un essere solo, di non dovere essere solo, ma di appartenere a un contesto sociale e morale cui dà il suo contributo di persona e da cui riceve il crisma della concretezza e della credibilità, non rinnega la trama alla quale appartiene, anche quando sogna e si libra nelle volute dell’invenzione, non ripudia il tessuto sociale ed umano di cui è parte viva, ma lo conferma, lo configura, spesso lo trasfigura, talvolta lo contesta.
É questo il significato vero dell’impegno nell’arte, di cui oggi si fa tanto parlare. E similmente l’irrazionalità non può ignorare il razionale, anche quando lo contraddice, anche quando l’offende, ma ne fa sempre un punto di partenza e spesso anche d’arrivo, onde è stato detto giustamente che quanto più l’arte sembra irrazionale tanto più s’accosta al razionale, sia pure entrando con esso in palese conflitto. Questo tipo d’irrazionale è anch’esso uno degli elementi più probatori dell’impegno artistico.
Era necessaria questa premessa per comprendere bene la poesia di Emanuele Cerruto, di questo giovane poeta destinato certamente a far parlare di sé. La sua poesia rappresenta una maniera nuova di dire, strana e talvolta sconcertante. Vive a S. Cataldo, in provincia di Caltanissetta. ma e nato a Modica, là dove vide i natali il grande poeta Quasimodo che a questo rampollo della sua terra ha affidato la fiaccola della bellezza intramontabile. Oggi ha ventinove anni, ma scrive da molti anni per sé, per soddisfare l’incontenibile esigenza di dare una voce propria al sito modo di vedere ed intendere gli uomini, la vita, la realtà tutta.
La caratteristica saliente della poesia del Cerruto è l’impegno, non un impegno preordinato e programmato, imposto dalla moda e dalle circostanze, ma profondamente vissuto come parte integrante della sua vita e del suo pensiero. Anche in quelle composizioni che più sembrano accostarsi al tracciato romantico, che più sembrano ripiegarsi in analisi intimistiche e compiacersi di delicate descrizioni paesaggistiche, senti l’impegno di chi non si astrae dal mondo che lo circonda, di chi non ama il sogno per il sogno, ma il sogno come leggenda, il sogno come indicazione, come messaggio, come offerta. Diciamo subito che questa è caratteristica della sua prima poesia, quando ancora lo stile del nostro non si era sganciato del tutto dalle movenze e dalle strutture di un’arte veneranda, seppur già stanca, ma nelle successive composizioni il Cerruto rompe definitivamente con gli schemi del passato e si abbandona al canto alla maniera sua. .2 una maniera libera e scanzonata, capricciosa, nella quale il sogno diventa groviglio, l’intimismo si maschera di derisione ed irrisione, le descrizioni indugiano su particolari scombinati tra loro e fatiscenti, impoetici di per sé e resistenti ad ogni tentativo di trasfigurazione lirica. Egli chiama perciò ad entrare nel mondo dell’arte tutti quegli elementi che sino ad oggi sono stati evitati, anzi ripudiati e sconsacrati. La sua poesia non è pertanto armonia che combina, ma forza che scombina, non lievito ‘ che esalta, ma gioco che sfigura, che urta ed offende i benpensanti, gli adoratori della logica ad oltranza.
C’è in questo modo di poetare un atteggiamento di sfida contro la classe borghese ferma alle posizioni acquisite, ligia all’ossequio di ciò ch’è, dogmatica, insofferente di novità, conformista e succuba del passato. In questo senso il termine borghese è sinonimo di vecchio, anzi di rancido, e in questo senso il poeta lo schernisce. Ma si indovina facilmente che lo scherno investe anche la tradizionale significazione del termine, quella che indica nella classe borghese la detentrice del potere e del capitale, come strumento di oppressione. Siffatto atteggiamento è chiaro in ogni composizione, in ogni verso, nell’uso delle singole parole, anche quando è sottinteso. Il Cerruto sente d’appartenere ad una generazione diversa, che respinge le seduzioni di ciò che è bello e pronto e regalato dagli altri, ad una generazione che vuol farsi da sé. che guarda il mondo con occhi puri e chiari e disprezza ciò che non è chiaro, non è puro, non è vivo. Generazione dinamica che vuol conquistare e non acquistare.
Per esprimere questo sentimento di ripulsa del passato e di vergine vitalità che si aggancia all’avvenire, egli si serve di quelle stesse parole e di quelle stesse forme poetiche che sono care alle barbute sentinelle del patrimonio mummificato, ma se ne serve ridicolizzandole, distorcendole a significati inediti, piegandole ad interpretazioni paradossali. Adeguata al contenuto e alla paradossalità che lo inturgida è la veste esteriore, la struttura formale: scombinata nel ritmo, libera da regole che la imprigionino, ribelle ad ogni schema, strana negli accostamenti, disarticolata ed asimmetrica. ma sempre vivace e scattante. Questa che potrebbe sembrare a prima vista una qualità negativa, una disarmonia esteriore indicativa di più grave disarmonia interiore, si rivela in seguito una qualità positiva, come perfetta adeguatezza della forma al suo contenuto, della forma spregiudicata come il suo contenuta, libera o almeno anelante alla libertà. E che altro è la poesia se non libertà? che altro se non corrispondenza di aspirazioni e di mezzi per conseguirle, che altro se non ansia di rinnovamento?
Siffatto anelito alla libertà e al rinnovamento delle strutture sociali e morali ancora accreditate dalla borghesia paludata caratterizza non solo la poesia di Emanuele Cerruto, ma anche la sua vita, la pratica quotidiana del suo comportamento. Chi non lo conosce bene, lo considera un ribelle, un rivoluzionario. Egli applica alla vita una personale concezione di rivolta, la quale, da spirituale ed intellettuale com’è originariamente, si traduce spesso in manifestazioni di provocazione e di sfida. ” Se è pur vero, egli suole ripetere, che mi si è data la vita senza chiedermi se volessi accettarla o no, è anche vero che mi si è attribuito il diritto di viverla come mi piace, senza controlli, senza giudizi e soprattutto senza condanne. Io appartengo a me stesso “. Questo motto caratterizza l’esistenza di un poeta che ha fatto della sua vita un autentico poema di libertà.
Con il Cerruto crolla il mito del poeta sovranamente vivente nella intangibilità del suo genio, solitario e sdegnoso, crolla anche la prevenzione del poeta parassita e pitocco o, ancor peggio, cortigiano e buffone e si afferma la concezione del poeta armato, che combatte e stermina il pregiudizio e l’errore, la menzogna e l’oscurantismo, del poeta giudice che dantescamente condanna e punisce.
Il lettore attento e soprattutto scevro di prevenzioni di qualunque genere, leggendo le composizioni poetiche di Emanuele Cerruto sentirà quanto esse siano pregnanti di sviluppi futuri e come l’opera di questo giovane scrittore che ha nel sangue la vena
genuina dei grandi poeti della sua stirpe apra panorami nuovi alla poesia italiana, carichi di luce, anzi di lampi, e minacciosi di più vasti rivolgimenti culturali ed artistici.
Gaetano Amato
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Mi odi perché sono nero,
mi uccidi perché sono nero
nero,
come la tua anima.
Mi rinchiudi in galera, mi maltratti
per non farmi fecondare la mia donna
che anch’essa è nera
e nera la creatura che il mio seme produce
dentro il suo ventre, anch’esso nero.
La sua nascita ti mette paura
perché nascerebbe un altro nero,
e se unissimo tutte le teste nere che nascono
ci sarebbe un’altra notte.
Mi fai abitare nei ghetti
ove porteresti i tuoi maiali;
ma io non ingrasso come loro,
la mia carne te la mangi tu.
Non sono venuto io nella tua terra,
mi ci hai portato tu
in catene.
Ho zappato i tuoi campi, neri come la mia pelle
ho raccolto il tuo cotone, bianco come i miei denti
ho visto i tramonti, rossi come il mio sangue
ho visto i tuoi cuccioli crescere ed i miei morire.
Ma io sono nero
nero,
come i tuoi pensieri.
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Con me
porto pensieri di galassie
e fiori del mio campo.
Con me
porto latrine umane
e pane di grano.
Con me porto grida di meduse
e ombre di madri.
Con me
porto il mio spirito
e l’elenco degli uomini.
Con me.
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Dipingere un quadro
seduto sul mondo.
Pennelli di sangue.
Voci di acque preoccupate
silenzi di uccelli ciechi.
Colori di genti.
Un parto che nasce
per vedere i teschi
colombe denutrite
che tubano tra le ossa.
Dipingere un quadro
seduto sul mondo.
Pianti di madri d’argilla
con le mani di paglia bruciata,
vagiti di bimbi
schiantati dal buio,
ombre di uomini
che mangiano fantasmi,
palazzi d’acciaio
coperti di feci e di fango.
Farfalle senza ali
e Odissee infinite
scheletri lebbrosi
e cellule di cancro.
Dipingere questo quadro
e scendere dal mondo…
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Nel circuito delle ombre
il disco lunare
piange lagrime d’acciaio.
Riflette
un raggio inoperoso
su una palude stanca,
mentre
i lamenti delle cicale
e delle rane
alternano il silenzio al buio.
Tra gli alberi marci
con le foglie ai piedi
come figli sgozzati,
un nero cammello
di fango
beve la rugiada
sporca di sorrisi e pianti.
Le lumache
corrono tra la sterpaglia
e salgono
sulle tue braccia di perla
lasciando scie di sangue.
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Nel pieno inferno
delle menti ghiacciate
vaga circola
l’incerta ombra di un sole.
Nell’erba
bagnata dalle lagrime del tempo
una lucertola di stagno
mangia le formiche.
Solo il silenzio
col suo rumore
infastidisce se stesso,
mentre
superstiti di un antico bene
guazzano tra il fango
cercando
il filo della vita.
E gli alberi
stanchi di vedere sempre il mondo
vanno verso il cielo
offuscato
da una nebbia di sospiri,
colmo di terrene impurità.
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Mentre l’alba si veste
l’erba
calpestata da mille piedi
si sveglia.
Solleva il capo
il rosso papavero
delle passioni,
mentre su un albero, triste
un uccello dai piedi legati
chiama la fame.
Le tartarughe
corrono
su piste di ghiaccio
e i fiori che sbocciano
sulle loro spalle
portano
il marchio della sofferenza.
Anche tu
esile donna
svegliandoti, porti il marchio
del mondo.
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Le foglie marce degli alberi
cadono
sul cuore di piombo,
formando una corazza
di acciaio impenetrabile.
E i sentimenti
fragili e impauriti
s’infrangono
tra le scogliere del silenzio.
Un’ombra misteriosa
gioca
con i capelli del dolore.
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Madre
ricorda quando ti fui figlio la prima volta.
Uscii vivo dalla tua vita,
poi mai più.
Nel giardino di casa
un picchio
annotava su di un albero i commenti dell’uomo
e tu gridavi il dolore della maternità.
Madre
ricorda quando ti fui figlio la prima volta,
una sola volta
poi mai più.
I giorni
che mi fecero crescere ti videro stanca.
Le tue ossa tessevano le fatiche
e le rughe deviavano la tua bellezza.
Madre
ricorda quando ti fui figlio la prima volta
e perdonami.
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…E Iddio, Iddio
Onnipotente
prese una manciata di fango.
L’impastò per bene
e gli sputò sopra…
Sam
non fare come Iddio,
Iddio Onnipotente.
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Illustrissimo Dio Onnipotente,
se
per i fatti tuoi
non puoi scendere in terra,
dal canto nostro noi
non possiamo salire in Paradiso.
premetto
he lo sciopero delle Ferrovie
non c’entra per niente.
Scrivi, almeno.
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Andando
sui tetti delle case
schiacciamo
i nidi degli uccelli,
ma stiamo accorti,
per non rompere le tegole.
Vorrei andare in Paradiso
per vedere
se Dio s’è arrabbiato.
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Fiorirono
le ultime speranze
nell’alba greve di peste.
Nevicava piombo
rompendo le vetrate,
il vento
correva tra gli squarci del silenzio.
Manca un bracciolo
alla poltrona dove giace il tempo.
vedrò di ripararlo.
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Vorrei ancora
sognare
bianche colombe
ma
anche nel mio cuore
scoppiano fucilate
una dietro l’altra.
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Accarezzi leggero
le forme dello spazio
ondulando in cupe
morbide note.
Riporti, ai piedi
d’alberi marci,
antiche nenie e
canti d’amore.
Vibra la corda
della miseria, ricca
soltanto di niente.
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Tenendo
alto il proprio sangue
cercando di non farlo versare
ci muoviamo,
urlando tra sterpi.
Ma,
come spesso accade,
qualcuno ci urta
ed il sangue dico,
ci cade in faccia
e poi a terra.
E nascono rossi papaveri
su tombe con le scuse
ella Repubblica.
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Le persone
che videro la tua tomba
in televisione
dissero soltanto;
quanta gente!
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Una
bianca barca di cera
arenata
su di un’arida galassia
attende
di prendere il mare
dello spazio
con noi due a bordo
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Ascolta anche tu un momento:
il fruscio della notte
che si spalma sulle case
i pigolii morenti di sette uccelli
straziati nel sonno da una civetta
il rotolare di un teschio
giú per i gradini della Cattedrale
i colpi di piccone conficcarsi con rabbia
nello stomaco vuoto della miseria giú nella miniera
il tonfo di un cadavere
scivolato di mano ad un trafugatore di salme
lo scalpiccio di tre questurini
in giro di perlustrazione
l’ululato di un cane
che si abbottona i pantaloni dopo aver fatto l’amore
il sonno popolato di neri fantasmi
di un condannato a morte
lo scatto secco di una ghigliottina-giocattolo
sulla testa incredula di una lucertola
il gorgoglio di una vecchia bottiglia di vino
che affonda nella pozzanghera di fronte casa tua
lo scoppio di un lampione comunale
ad opera di un anonimo cecchino
il tamburellare della pioggia
sui tetti delle auto in sosta
il canto di un gallo da combattimento
svegliato di soprassalto
i battiti del mio cuore insonne
che scandiscono la mezzanotte e tredici minuti.
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Sputate
le vostre sentenze ed ammonticchiatele
davanti la porta,
passerò col carro stasera a prenderle.
E intanto,
migliaia di cadaveri di bimbi
impuzzzoliscono l’aria.
Il treno
fermo alla stazione
guarda il binario, lunghissimo.
Torneranno stasera, i morti sulle spalle.
Sputate
le vostre sentenze ed ammonticchiatele
davanti la porta,
passerò col carro stasera a prenderle.
Fischiano
le sirene delle fabbriche
a musica del tramonto,
e partita una barca
da un porto qualunque.
Lontano
il tam-tam.
Monotono
discorre per i fatti suoi
seguendo le sponde dei fiumi,
inciampando nelle carcasse fetide
uccise, degli uomini.
Sputate
le vostre sentenze ed ammonticchiatele
davanti la porta,
passerò col carro stasera a prenderle.
Passerò col carro,
calpestando i morti del Bengala,
dell’Africa, del Vietnam
del Sud America,
tutti i morti
i tutte le guerre.
Asciugandomi gli occhi
riderò, quando
sputerete le vostre sentenze.
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Per sentire
il sapore della terra smossa da poco
mi sono fatto becchino.
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Per sentire
il sapore dell’acqua in continuo tormento
mi sono fatto marinaio.
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Per sentire
la voce stridula della morte
mi sono fatto soldato.
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Per sentire
la vita, questa vita
mi sono fatto uomo.
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Per sentire
il tuo amore donna
mi sono fatto male.
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Hanno origliato alle porte di tutte le case
i miei pensieri
in muto pellegrinaggio per il mondo,
ancora non so dove piantare la croce.
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E
resteresti con me
anche se perdute le chiavi di casa
dovessi dormire fuori
e
perduta la speranza di sperare
non dovessi sperare più
e… e
perduta la luce
non dovessi più ritrovarla,
resteresti con me?
Anche se nudo, coperto di neve
sulla pala di un mulino
dovessi ruotare in eterno,
ruoteresti con me?
Eh?
Ruoteresti?
Che direbbero i gabbiani
chiamati dal vento e dalle urla
vedendoci appesi insieme …
a ruotare?
E la luce di un lunedì qualsiasi
lorda di sangue
schizzata
da brandelli di carne
stritolati da un gigantesco tritacarne
trovarci insieme a pulire
come l’indomani di una festa
la piattaforma amorfa
del giorno.
Mi resteresti accanto
anche quando
dovessi operare il mondo di ernia,
che
con tutti quei morti sulla groppa
le palle gli sono andate giù,
giù giù
fino al buio nero della peste universale?
Hanno origliato alle porte di tutte le case
i miei pensieri in muto pellegrinaggio per il mondo,
ancora non so dove piantare la croce.
Vi porterò crisantemi amici
quando farete l’onomastico
Ricoprite d’immondizia i cimiteri
Non accendete le luci nelle città,
non parlate
non respirate
non mangiate
non vivete
Dove metterete
i morti freschi che stanno per arrivare?
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Hanno origliato alle porte di tutte le case
i miei pensieri in muto pellegrinaggio per il mondo,
ancora non so dove piantare la croce.
Mi rivolgerò al comune
penso.
Che bernoccolo
sta crescendo sulla luna
ragazzi!
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Un presidente<
che fa le condoglianze
ed un papa
che invia un telegramma
di lutto,
sono persone degne di rispetto.
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Nella
semplicità delle ellissi spaziali
si perdono i lamenti delle metropoli
ossidate
da cancri e fermentate dagli anni.
Passi di piombo
rintoccano in fondo alla strada
fondendosi
con l’acqua degli scoli,
scendendo giù nelle latrine,
buie
come i congressi per la pace.
Andai a letto con la morte
dopo
essermi fatto promettere
che si sarebbe accontentata/p>
di dormire al mio fianco.
Quando mi svegliai,
non la trovai più.
Aveva sicuramente preso
il tram
per gli inferni della giungla
oppure, forse,
era andata a vedere
come procedevano i decessi
nella verde Irlanda
che
a dir la verità
di verde c’è rimasto ben poco
dopo l’abbondante pioggia di sangue<
degli ultimi giorni.
Passò
sicuramente dalla miniera
comunque/p>
e per compagnia
portò con sé
un mio amico.
Statuarie immagini
di corpi riflessi nell’acqua.
Trenta rane
una sopra l’altra
tentano di arrivare in cielo
e fermare un aquilone
di stagnola.
E ti amo…
Eruditi documentari
c’inforrmano
che il Presidente degli Stati Uniti
dopo
tre colpi di tosse,
una spolverata alla giacca,
ed una strizzata d’intesa alla moglie
metteva piede in Cina.
Un albero
allungò un ramo
nel buio
e ne tirò fuori una farfalla
che aveva smarrito la strada.
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Cupa
la notte ti confuse
con le ombre degli alberi.
E
scivolasti dalla vita
lasciandoci
soltanto una lagrima
di diamante.
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