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LA METEREOLOGIA – LI VIDDANI – LI MASTRI – LA MEDICINA – LA CAMPAGNA – LA MAGIA – USI E CSTUMI – FAVOLE E RACCONTI – CANTI, NENIE E PROVERBI RELIGIOSI – L’INFANZIA E I GIOCHI – NINNE NANNE – RITORNELLI – CANZONI – POESIE D’AMORE – BALLATE –
PREFAZIONE
La cultura della nostra terra è un albero che affonda le sue radici nel mondo della civiltà contadina. E’ una constatazione che si può fare nei vari campi in cui si articola e scorre il vivere quotidiano: quanti comportamenti riflettono, quasi trasmessi geneticamente, usi e costumi del mondo agro-pastorale; quante volte, parlando, si fa riferimento a vecchi proverbi contadini.
Tuttavia il mondo contadino a Sambuca, un paese che di agricoltura ha sempre vissuto, non ha trovato in nessuno dei tanti uomini che scrivono, che fanno cultura (ad eccezione di Gianbecchina nel campo della pittura) un cantore appassionato. Una spiegazione è da ricercare nel fatto che nel nostro paese la civiltà contadina è stata sempre mortificata. A Sambuca vi è stata e vi è una supremazia della classe artigianale che ha fagocitato e fagocita tutto, mettendo in ombra tutte le altre attività, favorita in ciò anche da condizioni politiche.
La cultura contadina ha rischiato così, perché non scritta, di andare dispersa. E si tratta di una cultura di importanza fondamentale. Coltivare la terra è cultura; anzi più che cultura. E’ un rito. E’ magia. Si pensi al gesto della semina quando i semi vengono affidati alla madre terra; si pensi all’atto della mietitura che condensa un’atmosfera sacrale; si pensi al contadino con un occhio rivolto al cielo ed un altro alla terra.
Tanti gesti solenni che toccano accenti poetici. Tanti elementi che contengono un arcaico simbolismo trasmesso di generazione in generazione. Un mondo fantastico ricco di riti pagani, collegati alla religione (si guardi al rapporto che il contadino ha con le fiamme che rappresentano la purificazione).
Un lavoro perciò altamente meritorio quello di Salvatore Maurici, che ha sentito la necessità, nel momento in cui il ritmo del progresso ha portato profonde modifiche nel mondo contadino, di conservare alla nostra memoria storica i ricordi di tale mondo, destinato per certi versi a scomparire, per altri a cambiare profondamente. Un lavoro che è una piccola antologia che serve, per chi legge, a richiamare alla memoria con un argomento, cento argomenti diversi, con un proverbio tanti altri proverbi.
Un lavoro di ricerca condotto con i vecchi, con i parenti, con gli amici alla ricerca di notizie diverse e disparate, che è stato poi, codificato secondo lo schema del Pitrè (di cui sono state riportate tutte le voci riguardanti sambuca), eliminando le cose comuni ad altri paesi.
Un lavoro che è un omaggio sincero e appassionato al mondo contadino di cui alcuni riti (la manciata, la bevuta, la danza,…) sono entrati nel costume della nostra società.
Maurici ha compiuto una lunga carrellata nel campo della cultura popolare sambucese per fissarne sulla carta i capisaldi.
Una carrellata che spazia su “la parlata sammucara” , “li cosi di lu tempu” “i viddani e li picurara”; che parla di “li mastri”, di medicina popolare, di “la terra e di li strigli”, della magia, di usi e costumi; che cita “li cunti”, “li jochira” dell’infanzia, “li canti d’amuri”; che richiama le feste tradizionali, santi, cucina animali e piante, indovinelli e proverbi.
Un viaggio completo all’interno del mondo popolare contadino, di cui poco è trascurato. Questa è la caratteristica del lavoro di Salvatore Maurici, il cui unico difetto è quello di assommare tanti temi alcuni dei quali avrebbero meritato un trattamento monografico, e il cui pregio maggiore è di riportare alla ribalta tanti ricordi che stavano cadendo nel buco nero dell’oblio.
Franco La Barbera
Franco La Barbera
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Le previsioni del tempo erano affidate alle singolari, nonché coloratissime interpretazioni degli anziani, i quali dall’alto della loro lunga esperienza, captavano ogni più piccolo cambiamento del tempo. Lo sguardo grave e preoccupato di molti vecchi seguiva costantemente l’evolversi del gruppo di nuvole, ne soppesavano la consistenza, per tirarne alla fine previsioni attendibili. Pure i calli erano sicuri strumenti di previsioni meteorologiche nella cultura contadina. Ancora gli animali domestici con il loro brusco cambio d’umore rivelavano il messaggio degli astri sull’evoluzione del tempo.
Ecco alcuni dei più comuni proverbi sulla meteorologia:
_Spiriamo chi chiovi, accussì abbatti lu ventu;
_Celu a picurinu, acqua o ventu a lu matinu;
_Chioviri ad assuppa viddanu (si dice di pioggia leggera e persistente);
_Pi la Santa Cannalora, si ‘ci nivica o ‘ci chiovi, a quaranta jorna di lu ‘mernu semu fora,
si nun nivica e nun chiovi, di lu ‘mernu natri quaranta jorna ‘ni avemu ancora;
_La mattina del primo agosto si osservava attentamente un cane, se l’animale dormiva disteso con le gambe piegate sotto la pancia, era la premonizione di un inverno molto piovoso;
_Il gatto che si lecca il pelo in maniera continuata era sinonimo di piogge in arrivo;
_Era uso mormorare, subito dopo lo scoppio di un tuono: “Lu Signori detti focu a Santa Barbara”. E dopo un fulmine ci si segnava preoccupati, mormorando lo scongiuro di rito: “San Giuvanni Battista, ajutani tu…”
_L’inizio e la fine dell’inverno veniva salutato dal passaggio di li groj (le cicogne) che andavano a svernare in Africa, oppure ritornavano ai propri nidi;
– Uno scongiuro ci offre, esso stesso la credenza che i temporali siano opera del diavolo:
_Tronu e lampu, jiti arrassu
siti figli di Satanassu
_Jittativi n’à cava, la cchiù scura
unni nun cc’è nudda creatura.
_Quannu lu voi stranuta / lu tempu prestu muta.
_Quannu lu jattu si licca lu pilu/chiovi acqua di lu celu.
_Si lu celu fa la lana / chiovi pi tutta la simana.
_Si lu caddu ti doli / lu celu acqua voli.
_Quannu l’ossa senti santiari / tempu bonu nun t’aspittari.
_Si lu gabbianu vola stranu / prestu arriva l’uraganu.
_Tronu, tronu, vattinni arrassu, chista è la casa di Santu Gnaziu,
Santu Gnaziu e Santu Simuni, chissa è la casa di nostru Signuri.
_Quannu li muschi muzzicanu / lu jornu doppu chiovi.
Ai bambini di una volta, appena il cielo incominciava a brontolare, veniva detto che era il Signore che giocava alle palle con San Giovanni oppure erano San Pietro e San Paolo o ancora il Signore (o lu nannu) stavano riparando le botti. Le donne appena incominciava a lampeggiare, per non restare allampate, coprivano gli specchi di casa, i lumi, il braciere e si toglievano gli orecchini e gli oggetti d’oro, quindi sedute in cerchio, ripetevano:
“San Giuvanni jiàutu e ddanni,/nn’ata a scanzari di trona e di lampi”. San Giovanni, dunque, protegge dalla tempesta e quando questa continua ad infuriare ci si segna ad ogni lampo e si dice: “San Giuvanni, San Giuvanni …”. Se poi si hanno a portata di mano i micro-panuzzi di San Giovanni (nel Trapanese) e si inghiottono uno dopo l’altro proprio durante l’imperversare dei fulmini, è ancora meglio. Se ciò non bastasse si fa ricorso a tutti i Santi Giovanni iniziando dal Battista: “San Giuvanni Battista / San Giuvanni Evancilista / San Giuvanni Vuccadoru / libbbiratini du lampu e du tronu.
San Giovanni divide il protettorato delle tempeste con Santa Barbara la quale viene invocata con il seguente scongiuro:
“Santa Barbara nun durmiti / ca li trona su sbrugghiati / unu jiunti a mala via / Santa Barbara cu ‘mia” oppure con quest’altro: “Santa barbara ‘n munti stava / d’acqua e ttrona ‘n si scantava, / si scantava di l’ira di Ddiu, /Santa Barbara amuri miu”, e ancora l’altra formula citata da Mimmu Triveri: “cciù scura / unni nun c’è nissuna criatura”.
Durante i temporali o le alluvioni il santo più invocato è San Giovanni Battista. San Petru e san Giuvanni dici sì, san Petru e San Giuvanni dici no..
San Giuvanni fu lu primu
di l’apostuli biatu,
scausu e nudu pilligrinu
ja circannu lu so patri,
lu so patri Zaccaria
la so matri Lisabetta,
vicchiaredda di tant’anni
viva viva San Giuvanni.
San Giuvanni Battista
San Giuvanni Evancilista
San Giuvanni Vuccad’oru
Libiratimi di lu lampu e di lu tronu.
San Giuvanni Vuccad’oru
Quantu eni beddu lu vostru nomu
Lampi e trona
purtativilli a ‘na banna scura
unni nun cc’eni nudda creatura.
Si lu celu fa la lana
chiovi pi tutta la simana.
Signuruzzu chiuviti chiuviti
chi li maisi su morti di siti,
mannatininni una ‘bona
senza lampi e senza trona.
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Essi erano la stragrande maggioranza della popolazione sambucese, vivevano in misere abitazioni, spesso in coabitazione con gli animali domestici (Muli, capre e galline). Erano molto poveri; le braccia erano il loro unico bene, ma spesso rimaneva inutilizzato. A volte possedevano un mulo o un asino, una capra, una mucca e questo era per loro un vanto, un segno di benessere e di distinzione. In molti lavoravano la terra a mezzadria o in gabella, pagando altissimi affitti o “terraggi” e spesso a fine anno, pagate le sementi e gli affitti, in casa di frumento per la “mancia” non ne entrava molto, sicuramente una quantità insufficiente per sfamare tutta la famiglia durante i mesi invernali quando tutti i lavori dei campi venivano sospesi.. Coloro che si “adduvavanu” (impiegavano) presso le numerose e floride masserie esistenti nel territorio sambucese non pativano la fame, ma le loro condizioni erano simili a quella degli schiavi, costretti per pochi soldi a vivere con gli animali e a dormire con essi, con permessi di un pomeriggio ogni quindici giorni per andare a trovare la famiglia e cambiare la biancheria.
La donna in casa faceva il pane una volta la settimana per tutta la famiglia. Un pò di pane, una crosta di formaggio, due passuluna di olive o una cipolla costituivano per la gente dei campi pasti ricercati che non sempre si potevano permettere.
La Puddara indicava la costellazione delle Pleiadi, raramente veniva anche indicata come li setti stiddi. Durante i mesi estivi compare alle quattro del mattino l’ora in cui nei campi iniziavano la loro giornata di lavoro.
La “stidda di jornu è Venere, è ben visibile in cielo poco prima dell’alba. Al suo spuntare gli uomini si alzavano e cominciavano a governare le bestie ed a preparare gli attrezzi. A volte la preparazione degli attrezzi da lavoro e la loro costruzione assumeva tra i contadini ritualità magiche. Vi era ad es. l’abitudine ad incidere segni o figure tradizionali e simboliche sui tridenti ricavate con corregge di pelle di montone, legata ai punti d’intersezione. Per il Pitrè questi segni erano di natura cabalistica.
Ecco alcuni proverbi:
La sulame paga patruni!
S’aisa lu viddanu di lu lettu quannu la Puddara eni auta ‘ncelu.
Terra quantu vidi, casa quantu stai.
La pecora chi fa beeh, perdi lu muccuni.
Tra contadini e pastori non correva buon sangue.
Omini chi v’aviti a maritari
Grapiti l’occhi e mittiti pinseri,
figli di mastri nun v’aviti a pigliari
chi sunnu manciatari e sidiceri.
Ninu lu picuraru
Quattro e cinquanta, un pagliaru
Pi ‘na vascedda di ricotta
Cci appizzau ‘na bedda picciotta.
Pi ‘na ficu successi l’opira
Pi cogliri ‘na ficu, casu stranu
Mi stavano sparannu e nun sacciu comu,
ancora lu latti avia ‘nta li manu
chi mi vitti cumpariri un pezzu d’omu.
Eh chi, patruna novi a sta ficara?
Gnurnò cumpari, nun tegnu cannistri ne panara
‘na ficu mi cugliu si lu criditi,
si m’ammazzati poi chi conchiuditi?
La ficu eni dintra la panza e vuj vi cunsumati.
Cummari, cummaruzza
Quantu assai vi amu,
vi cci portu a lu mè jardinu?
E stati pur sicura chi ddà arrivati
Nun facemu li parti d’Addamu,
chi p’un pumiddu persi un jardinu.
Ortu, omu mortu
Si lu primintiu sbaglia, a lu tardiu dunaci focu.
Marzu, ogni troffa é jazzu.
Aprili e Maju sunnu li misi granni.
Simina primintiu e arricogli sicuru.
Cu zappa, zappa la sò vigna.
Vigna tigna.
La terra a parmu é la petra a unghia.
Mentri penni l’aliva renni.
Ninu….cu tutta la so rubbazza
Mannau nni la figlia di un certu Martazza
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Gli artigiani sambucesi erano indubbiamente una classe sociale culturalmente elevata, conscia di esserlo, professionalmente preparata. Il capo mastro era per il giovane apprendista un maestro di vita. Trasmetteva al giovane tutti i suoi saperi, guidandolo nella vita sociale, era proprio lui che presentava il giovane al momento dell’iscrizione al circolo omonimo o nella confraternita religiosa.
Datimi ducent’ova e un tumazzu
Quantu ammolu stu me cannarozzu.
Dunni trasi la martiddina, trasi la ruvina
Dunni trasi lu muraturi, trasi lu Signori.
La fabbrica eni duci ‘mpuvuriri.
‘Nzignati l’arti e mettila di parti.
Cu paga mastru nun paga mastria.
Lu scarparu va scausu e lu muraturi senza casa.
Aspanu Guariscu avi la panza comu un carrateddu
‘mmiscari si vosi cu Cola Munneddu,
‘ni lu ‘mmernu rumatichi appi
Cola Munneddu persu si vitti.
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Fra le tradizioni popolari che più di tutte forniscono abbondante materia di studio, per usanze, leggende poetiche o misteriose diavolerie, queste sono certamente le tradizioni popolari legate alle erbe, ai filtri magici.
Elemento fondamentale di tutte queste medicate era l’olio d’oliva che come recita un antico detto: “L’ogliu d’aliva sana ogni mali”.
La medicina popolare era quanto di più superstizioso si potesse insediare nell’animo dei figli del popolo. Questo spiega perciò come molti medicamenti in uso presso gli antichi popoli, continuano ad avere ancora oggi cultori ed appassionati. Maliarde, maghi, praticoni, hanno prodotto i loro medicamenti, utilizzando abbondantemente l’acqua santa e l’olio benedetto. Ancora oggi capita nelle comunità agricole che un ammalato diventi oggetto di discussione e di sperimentazione per inventarsi nuovi rimedi capaci di fare passare il dolore.
La medicina popolare è dunque costituita essenzialmente di erbe, “Chi armenu nun fannu mali”, sapientemente triturate e miscelate e qualche volta spruzzate di magia. La credenza popolare privilegiava alcune persone a cui riconosceva particolari doti di guaritore e perciò abile a preparare le “porzioni”. Uno di questi specialisti era il settimo figlio maschio, nato senza interruzioni di figli femmine e che veniva chiamato Settimo. Pure incline allo spiritismo erano coloro che nascevano nella notte di san Pietro ed i nati di venerdì. A questi privilegiati del destino, la credenza popolare affidava ciecamente la soluzione dei propri guai.
Chirurgo era in genere il barbiere.
Un certu mastru Cosimu
Vidennusi abbuttatu
Chiamau di bottu un medico
Cridennusi malatu.
Cci dissi: signor medicu
Mi sentu un gran duluri,
un murmuriu di stommacu
unitu a gran duluri,
la testa comu ‘n cimulu
la casa gira ‘ntunnu
li cannarozzi umiti,
la panza chi mi sbutta.
E comu lu visitau
‘nta lu pettu, ‘nta lu schino
lu medicu jccau ‘na bafara:
forsi vivistivu vinu?
-“Ngurnò, ju sugnu astemiu”-
-Rispunniu ddu gran facciolu-
-“Mi nni potti viviri du jta
intra ‘n brignolu.”-
-“Allura ddocu cci vonnu pinnuli,
Pinnuli pi sudari,
e poi ancora di seguitu
catapasimi a mettiri e a livari.”-
Lu medicu nun avia caputu
Chi era putenti sbornia
Chi l’omu avia pigliatu,
a lu bestia di lu medicu
cci parsi ch’era malatu.
Cci dissi nomi difficili
‘na strana malatia.
Assai mastru Cola fu cuntrariatu
Perciò licinziau lu medicu fissa
E chiudiu la partita.
Vju che la tò scienza è granni
Ma fammi ‘n gran fauri,
‘na cosa accussì facili
lassala curari a mia.
Vi salutu pani e tassu
Lu caudu e lu friddu ccà lu lassu
Alleggiu la testa, m’aggravu a li peri
Torna e riveni la saluti arreni.
Ti toccu e nun ti toccu! Ti vju e nun ti vju
Furcu, bifurcu, lurcu, cataturcu!
Ti curcu, ti sturcu, t’infurcu
Cu acqua e Sali e ‘nenzu chi la virtù avi!
Pi li chiaghi di Gesù, nun cci accunsentu
E ‘ncensu e Sali e acqua ogni mumentu!
Dintra la fossa
Li juti e li strizzati svilimenti
Sutta li denti ti stridunu l’ossa.
Ficu milinciana
Haju lu mali di la quartana
A mia mi scinni, a tia ti acchiana.
-“Ti salutu erva pilusa
Picchì staj malancuniusa
Ju tu vegnu a visitari
Tutti li mali cchi hajiu a fari passari”-
Lucia,
A spiaggia di mari jia
La ‘ncuntraru Gesù e Maria
Cci dissi:”- dunni vai, Lucia?”-
-“E dunni è jiri, Maria?
Sugnu persa e nun sacciu la via
Havi tri jorna e tri notti
Chi haju dulura ‘nta l’occhi
Chi nun mi pozzu cuitari”-
-“Picchi nun viniti nni mia?
Ti nni vaj nni lu me ortu
Cogli giri e finocchi
Cci li passi ogni tri uri
Chi ti passa lu duluri
Senza pinni e senza lizzu
Tagli purpu e pannarizzu”-
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La terra era per le comunità rurali fonte di vita. Possederla significava raggiungere il benessere, allontanare lo spettro della fame, acquisire una rispettabilità tanto più ampia quanto più vasta era l’estensione della terra che si possedeva. La terra bisognava lavorarla, dissodarla, i suoi frutti raccolti e conservati. Necessitavano molti attrezzi “stigli”, ed ancora occorreva difendere i prodotti della terra dai ladri e dagli agenti atmosferici che li avrebbero potuto far marcire. Ne accenneremo alcuni che la tecnologia moderna ha condannato per sempre all’inutilità. Fra gli attrezzi ricordiamo l’aratro a chiovu che veniva costruito interamente in legno con punta rivestita da un involucro in acciaio, gli animali venivano legati al giogo (juvo) tramite dei collari imbottiti di paglia (capizzeddi). La zappudda veniva usata per (scurriri li siminati) sarchiare il grano. La zappa (zappuni) veniva usato per coltivare il terreno, il vigneto e l’orto. Ancora c’era il piccone (fesi), la falce (fauci), li canneddi (lunghi ditali di canne adoperate dai mietitori) l’ancinu e lu croccu usati per raccogliere e legare i covoni di spighe, li rituna (recipienti a maglie larghe di corda usati per il trasporto della paglia) li carteddi: recipienti costruiti in canne intrecciate con vimini di olmo, li cannizzi, grossi cilindri costruiti in canne incrociate entro cui veniva immagazzinato il grano necessario per la mancia.
La rotazione agraria
‘Nta la terra chi era suddata
a li primi acquii si sciaccava
un misi doppu si rifunnia,
a novemmiru, si era pulita, si siminava,
si era lorda si stimpuniava,
nascia lu siminatu e si zappuliava,
si scurria chi era ancora ‘ntiniri,
si mitia, s’infasciava cu croccu e ancinu,
la gregna s’infasciava cu la liama di ddisa,
s’accavaddunciava a sei a sei
e tuttu chissà si eranu furmenti di russelli.
Li tumminii si siminavanu cchiù tardu
Supra li ristucci di russellu
Si lavuravanu a dicemmiru
Pi siminalli a frivaru.
Lu canti di la pisata
-“Acchiana e scinni chi l’ancilu vinni
Scinni a acchiana chi la mula baciana.
acchiana e scinni e torna ancora,
e chi te dari ‘na bona nova
e chi nova è chista
e veni lu ventu e t’arrifrisca
e lu ventu e lu straventu
e viva lu santissimu Sacramentu.
Attia mula di battaglia
acchiana e scinni
chi la m’affari paglia”-
Dopu qualche tempo che gli animali giravano nell’aia, si cambiava il senso di rotazione. Si fermavano gli animali, si faceno girare, si cci jiccavanu li retini e si cci gridava: “A la banna!”:
Arriventa e piglia sciatu
E viva Diu sacramintatu;
arriventa sta spadduzza
arriventa e cogli sciatu
e viva Diu chi t’ha criatu.
La vendemmia
Alligramenti si fa la vinnigna
L’omu travaglia allegru e nun si lagna
Forza e saluti avi di la vigna
Cchiù travaglia, cchiassai guadagna.
L’omu valenti nun s’indigna
Travaglia allegru, cuntenti cu la magna.
Cu cerca trova, cu voli s’insigna
Cu sapi travagliari, assai guadagna.
Si vò manciari ficu, ‘a stari sutta la picara.
Li cosi di la campagna, su di cu li cogli.
Marzu , ogni troffa eni jazzu.
Cu simina cu li causi di peddi, si lu meti cu li causi di tila.
Cu nun simina ne moddu e ne duru, veni l’estati e si tocca lu culu.
Guardati vigna chi veni Vicenzu.
Cu zappa, zappa la so vigna.
TORNA SU
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I riti magici sambucesi di cui sono venuto a conoscenza, sono in gran parte preghiere e scongiuri, creduti efficaci e risolutivi di particolari bisogni o necessità dalla popolazione locale. A volte, rappresentano offesa per gli avversari ed i nemici.
Il settimo figlio maschio, chiamato pure Settimo, era considerato un uomo speciale, capace di guarire molti mali. Abile a “scacciare” gli spiriti al pari di colui che nasceva la notte di San Pietro. Colui che nasceva di venerdì, era ritenuto dai più immune al malocchio ed alle fatture.
I mortiI morti erano le anime dei cari estinti che nella notte di Ognissanti, entravano nelle case dei congiunti per portare ai bambini la frutta di marturana, i dolci che tutti chiamavamo: “Li cosi di li morti”. Molto raramente erano prodighi di regali con i bambini buoni come accade con le fate buone in altre regioni; loro li portavano a tutti i bambini.
Il diavolo
Il diavolo nella settimana di Pasqua era padrone del mondo, l’antica tradizione sambucesi attivava un rituale per scacciare il maligno nella domenica di Pasqua. Le strade del paese si riempivano di gente armata di tralci di vite e con esse percuotevano uomini, animali e cose. -“Lu sabbatu a mezzjornu ‘ncuminciavamu a sunari li campani e la vanedda s’ainchia di cristiani chi dicianu: -”Vai via brutta bestia, vai via brutta bestia.”-
I filtri d’amore
Le donne sambucesi innamorate, solevano mandare alle persone amate un dolce, entro cui, durante la manipolazione, era stata mescolata una goccia del proprio sangue o più efficacemente una goccia del proprio mestruo. L’ignaro destinatario mangiato il dolce sentiva subito una speciale attrazione per la donna che gli aveva fatto il graditissimo dono, qualche volta il malcapitato veniva colto da un furioso mal di pancia.
Acqua maritata
Le donne che desideravano un uomo e che non venivano corrisposte, facevano spesso ricorso ai filtri d’amore per forzare la volontà del loro amato e ridurlo così al proprio volere. Le acque benedette attinte presso tre fonti di tre parrocchie; due di santi maschi ed una di santa donna. Venivano miscelate assieme per formare una mistura che riusciva mirabile nel suo scopo. Ancora più efficace riusciva in questo intento l’acqua che il sacrestano versava sulle dita del parroco celebrante al lavabo. Antes innocentes. Si trattava di acqua speciale che le maliarde ricercavano molto per compiere malefici vari.
Orazioni magiche
L’orazione d’affezione era fondamentale per annullare la volontà dell’uomo che si rifiutava di amare una donna. In un giorno di venerdì, la donna doveva procurare un po’ di canapa e venticinque agate di seta a colore, poi alle diciotto in punto si cominciava a filare dicendo:
– “Chistu è cannavu di Cristu
Servi pi attaccari a chistu.”-
La donna portava con sè in Chiesa il filato e, all’ora dell’elevazione, eseguiva tre nodi con i capelli della persona amata (più semplicemente con un laccio o un fazzoletto) con la mano sinistra, dicendo:
-“Cca nun sugnu vinuta pi ludari a Cristu
Ma pi attaccari a chistu.
Ju l’attaccu e lu lju pi l’interu munnu
Ju criu e tegnu fidi
D……. ha da essiri a lu me vuliri.”-
Nel frattempo la fattucchiera recitava nove volte di seguito l’attrazione:
-“Stidda una, dui, tri, quattru, cinqu,
tutti diavoli vi faciti
‘ntesta di D……vi ‘nni jiti.
Stidda sei, setti, ottu, novi,
tridici diavoli vi faciti
‘ntesta di D…vi ‘nni jiti
tanti, tanti ccinni dati
mortu ‘nterra lu lassati
no pi campari, no pi muriri,
ma pi avillu a lu me putiri.”-
Finita l’attrazione la fattucchiera, per aumentare il suo potere sull’ignara vittima, poteva pronunciare ancora altre orazioni che indebolivano ulteriormente la volontà della vittima. (Questa ritualità magica era in uso a Sambuca molti anni fa ed è stata riportata dal Pitrè in un suo lavoro).
Al cavalluccio marino i nostri antichi riconoscevano poteri magici portentosi. Ad esso solevano legare alcuni nastri variamente colorati, specie allorché i mariti gelosi volevano scoprire in flagrante Ia moglie infedele, L’abitudine di apporre vari nastri colorati ai bambini o ad animali per preservarli dagli influssi malefici è poi continuato fino ai nostri giorni.
Li donni
Li donni, erano esseri soprannaturali. a metà strada fra le streghe e le fate benefiche. Geni benefici o malefici, disposti a “portare” bene o male, ad arricchire o ad impoverire in modo alquanto capriccioso una persona da loro presa di mira. Questi spiriti non erano visibili, ma qualcuna, a cui raramente si erano mostrati, affermava che erano delle gran dame. Da sottolineare che non sempre sono stati fortunati coloro che hanno avuto questo piacere. L`uomo che però riusciva a conquistarsi l’animo bizzarro delle “donni”, era da loro protetto ed aiutato. Amavano l’ordine nelle case in cui entravano, nel caso in cui trovavano un letto mal fatto, intervenivano buttando all’aria lenzuola e materassi. Variopinti e fantasiosi erano i modi con cui questi spiriti manifestavano il consenso o il dissenso verso gli occupanti di una casa e dei loro averi. Alcune di queste “donni” si nascondevano in campagna sotto le forme di una biscia, nel caso in cui un uomo uccideva un rettile entro cui era nascosta la “donna” sicuramente incappava in una serie di guai molto grossi. Ad evitare di correre simili avventure l’uomo che si apprestava ad uccidere la biscia, mormorava le parole liberatorie: -“Pi guisina t‘ammazzu”-. Ricordo che negli anni della mia giovinezza, a Sambuca, nel caso in cui una biscia penetrava nell`abitazione di qualche cittadino, questo si precipitava a chiamare una signora, nata appunto la notte di S. Pietro. Questa “privilegiata” arrivava sul posto e dopo aver mormorato alcuni rituali, si avvicinava al rettile, che docilmente si faceva catturare. Allora la donna lo richiudeva in un sacco e recatasi in campagna lo liberava. Nasceva cosi la “Donnuzza di locu”, protettrice dei beni della campagna.
Pitré riporta una storia sambucese che si raccontava a sua tempo sulle “donnuzze”. Un tale trasportava grano dall’aia in paese, entro dei sacchi ben legati con una “retina di muli“. L’uomo durante il viaggio si adagiò sopra i sacchi e li compresse troppo senza sapere che a sua insaputa le “donnuzze di locu” erano entrate entro i sacchi sotto forma di serpi. Per vendetta le “donnuzze” fecero acciuncari i muli al malcapitato. l bambini che abitavano in una casa di “Donni” quando erano ben accetti li accarezzavano divertendoli, altrimenti gridavano continuamente perché strapazzati dagli spiriti. Ai genitori non rimaneva altro da fare che cambiare casa nella speranza che la nuova abitazione non fosse abitata da “Donni”.
Le “Donni” accarezzano i capelli dei neonati e ne fondono i peli delicati in treccine molta piccole ed inestricabili che prendono il nome di “trizzi di Donni”. Quella treccina era il segno tangibile della protezione accordata al bambino, in ogni caso un modo sicuro delle “Donni” di manifestare la propria presenza in una casa. Nessuna doveva tagliarle, pena il rischio di incorrere nelle ire delle Signore invisibili.
Per proteggere i propri figli dalle “Donni”, le madri usavano vari accorgimenti tra i quali ricordiamo quello di strizzare alcune gocce di colostro sulla culla del neonato mormorando lo scongiuro: -“Ddocu ti fici tò matri”-
Singolarmente, i sambucesi credevano che “li Donni” fossero anche interessate ai cavalli e che sulle bestie facessero le loro inconfondibili treccine. Anche in questo caso le “trizzi di Donni” non venivano tagliate, pena il rischio di vedersi “acciuncare” le bestie. Si racconta di cavalli con le “trizzi“, molto più forti e resistenti degli altri che sono vissuti per moltissimi anni propria grazie al particolare favore accordata loro dalle “Donni”.
Nella tradizione popolare sambucese, non sono riportati episodi significativi che parlano delle Fate buone o cattive. A Sambuca quindi, tutto il bene ed il male veniva dispensato agli abitanti dalle mani capricciose “di li Donni”.
Il lupo mannaro
iventava lupo mannaro colui che veniva concepito nel novilunio, colui che dormiva a1l‘aperto in una notte di luna piena, in un giorno di martedì o di venerdì durante l’estate. Il lupo mannaro sentiva prossima l’ora dell’accesso ogni mese, all’avvicinarsi della stessa fase Lunare, che esercitava su di lui un influsso malefico. Molti sono i racconti che la tradizione popolare ci ha tramandato, anche se di essi non rimangono che episodi fantastici e terrificanti.
ll malocchio.
Era il fascino malefico esercitato da persone speciali, chiamate Jettatori. Erano persone che odiavano il bene, ovunque esso fosse presente e avevano poteri speciali per attirare le sventure sopra gli uomini e le cose. ll nome dello jettatore era temuto (vedasi l’omonimo personaggio in una novella di Pirandello). Contro i suoi malefici la gente si procurava dei rimedi come ad esempio: il ferro di cavallo, il corno verniciato di rosso, una testa di vipera, ecc. ecc. Chi si trovava sprovvisto di tali rimedi, in caso di necessità sbrigativamente si toccava i genitali. “Tocca ferru” li consiglia un amico di fronte ad una disgrazia o se appena se ne parla. Ancora si usa a casa, se per distrazione si dovesse rovesciare per terra un po’ di olio, prendere una manciata di sale e buttarlo ai quattro angoli della stanza. Pure molti preti si mostravano timorosi della jettatura e molti sono ancora i sambucesi che ricordano le parole ammonitrici del compianto Padre Cacioppo Salvatore che al proposito soleva dire: -“nun ci criditi, ma guardativi-“.
I sogni erano sempre considerati avvertimenti del Cielo, ammonizioni o rivelazioni sul futuro. Essi comunque non si manifestavano in modo chiaro, perciò, dopo ogni sogno un po’ complicato e misterioso, le donne in particolare, si riunivano fra loro per “smurfiarisi”, o analizzarne il significato, spesso ricorrendo alla consulenza di un’esperta: gli escrementi in sogno ad esempio significavano denaro in arrivo. Chi sognava il denaro invece era la premonizione di una carestia che si avvicinava o guai in genere. Dai sogni e dalla loro interpretazione nasceva e si rafforzava la passione del Lotto.
A Sambuca fintando che è esistito il giuoco del Lotto, molte persone hanno praticato dei riti magici, per sbancare il Lotto. Il rituale mi è stato raccontato da persone degne di fede. “Coloro che volevano vincere si recavano in chiesa per ottenere da un sacerdote un intervento affinché Dio o un altro Santo concedesse loro di sognare dei numeri da giocare. La preghiera viene recitata in una Messa appositamente celebrata, alla quale il devoto assisteva con la certezza di dover sognare nella prossima notte cinque numeri infallibili, speranza che diventerà ferma, incrollabile al momento dell’elevazione durante la quale il sacerdote dovrà, secondo il supplicante, pronunciare parole adatte.(Pitre)”.
Filtro d’amore. Quando una moglie voleva far ritornare a sè il proprio uomo sessualmente distratto da altre donne, anche contro la sua volontà, si recava presso due Chiese dedicate a Santi maschi ed una di Santa femmina. Dall’acquasantiera delle chiese prelevava di nascosto un po’ di acqua benedetta, che più tardi, a casa, avrebbe mescolato assieme ad un po’ di polvere magica che le era stata fornita da una maliarda capace di “legare” il filtro mentre recitava lo scongiuro di rito:
-“Diuvulu santu, tu si binidittu
Va a truvari a me maritu
Vacci a murmuriari,
l’aceddu nun servi sulu pi pisciari.
E tu luna chi canusci li mè peni
Facci strata dintra la so ragiuni,
iddu prestu a mia havi a turnari
si vuatri spirdi ci stati attaccati a lu cori”.
Infine uno scongiuro che veniva recitato per annullare l’effetto di una fattura, vera o presunta. A prevenzione spesso si recitava nel caso fossero stati oggetto di fattura senza saperlo:
-Magara fusti,
tu chi a mia ammaliasti
o chi mi facisti magaria,
si mi la facisti, fammilla livari
chi armenu dicu
chi jiu nun moru pi tia”-
L’Addaunura. Si “taglia” con un coltello che abbia un manico d’osso bianco.
Scongiuro popolare per proteggersi dai temporali:
Lu Verbu Dicu
Lu Verbu sacciu e lu Verbu dicu
Chiddu chi lassau scrittu lu Signuri
Quannu chi a la cruci jiu a muriri
Pi sarvari a nuatri piccatura.
Piccatura e piccatrici, abbrazzativi a sta Cruci
Chista cruci eni auta e bedda
Abbrazza lu mari, lu celu e la terra.
San Giuvannuzzu cu lu libbru d’oru chi liggia
Cu sapi lu verbu l’avi a diri,
Cu nun lu sapi si la va ‘mparari
Cu lu ricita tri voti a lu jornu
Eni scansatu di la mala morti.
Cu lu dici tri voti pi via
Eni scansatu di la morti ria
E di l’ominiceddi pi la via.
La fattura
Giovanni era un giovane sambucese, proveniva da famiglia modesta eppure grazie alla sua abilita ed intelligenza era diventato in poco tempo un valente artigiano, richiesto da molte famiglie per lavori di abbellimento delle loro case. Il giovane arrivava puntuale al lavoro, eseguiva scrupolosamente quanto gli veniva richiesto e terminato il lavoro veniva pagato con sollecitudine. Questo suo lento ma progressivo miglioramento economico provocò l’invidia di una donna che abitava vicino al giovane: -“Talia chi stu picuraru in pocu tempo si sta facennu riccu, mentre me maritu, mischinu, jecca sangu di la matina a la sira senza chi nuddu lu voli cunsidirari”.-
Più la donna faceva a sè stessa quelle considerazioni, più sentiva crescere in lei l’odio per l’incolpevole giovane, finché un giorno successe la tragedia: la donna complice una sua amica, eseguì una fattura al giovane, In pochi giorni Giovanni da allegro e pieno di vitalità si trasformò completamente. Divenne debole, prese ad uscire di casa con sempre minore frequenza. Fatto ancora più grave cominciò ad essere assente sul lavoro. La madre preoccupata, lo accompagnò dal medico, ma più tardi, poco soddisfatta della cura, lo fece visitare da uno specialista in città. Un lungo calvario portò madre e figlio attraverso vari studi medici con lo sconsolante risultato di sentirsi dire: -“ll ragazzo sta bene fisicamente”- troppo poco per quelle che erano le speranze dei due. Disperata per il tanto girare a vuoto, la donna rese partecipe del suo dolore alcune sue amiche ed una di queste la indirizzò presso una donna “chi facia cosi ‘ncridibili”. Questa fattucchiera visitò bene il giovane, ed infine rivelò alla madre della fattura di cui era stato vittima il figlio. Indicò anche il rimedio: occorreva che la madre per tre giorni di seguilo provvedesse a lavare la casa a piedi nudi con della soda caustica, mormorando per l’occasione alcuni scongiuri. Il giovane, dopo qualche tempo, si riprese da quella strana forma di apatia e ritornò alle sue normali abitudini.
Lu Pitruni
Nell‘estate del 1890, giorno della celebrazione di S. Pietro, due pastori, padre e figlio, accudivano al proprio gregge perché non bruciasse sotto il sole cocente. Nei momenti di pausa, i due uomini si riposavano al fresco dietro una grossa roccia. Dopo uno dei tanti momenti di riposo, il più giovane dei due, al momento di rialzarsi, si accorge di essere rimasto “acciungato”, incapace di compiere un qualsiasi movimento. Molto preoccupato, il padre sellò una giumenta e, caricato il figlio sopra di essa, lo portò in paese. Doveva chiamare un medico, ma la famiglia non aveva soldi sufficienti per pagarlo: si sapeva che il dottore a Sambuca, per entrare in una casa dove si trovava un malato, pretendeva di essere pagato in anticipo per il suo lavoro. L’uomo vendette di fretta alcuni animali e riuscì a mettere assieme una moneta d’oro. Il professionista visitò il giovane ammalato, ma, alla fine, non riuscì a dare lumi alla famiglia. Per giustificare il proprio onorario, alla fine prescrisse alcune medicine e per la famiglia ci furono ancora problemi per pagarle. Dopo qualche giorno la famiglia si rese conto che la cura non aveva apportato alcun beneficio al giovane. In un momento di scrupolo, il padre decise di chiamare un altro professionista, anche la cura dettata da quest’ultimo servi a poco: il giovane era ancora lì nel letto, incapace anche di un piccolo movimento. Un giorno, la madre del giovane ricevette una visita: una conoscente dalla fama un po’ dubbia, (il prete del Carmine da qualche tempo durante la funzione religiosa, la guardava un po’ allarmato). La donna sembrava sapere ogni cosa: -“Cummari, aviti chiamatu dui duttura e beni Giuvanni nun n’havi avutu. Si vuliti veramenti aiutari a vostru figliu, lassati fari a mia”- .Speranzosa, la madre volle tentare: fece entrare la donna in casa e questa si avvicinò al giovane malato, vi accostò un’immagine della Madonna dell’Udienza che aveva portato con sè, e cominciò a mormorare alcune litanie, incomprensibili ai presenti dopo aver posto una mano del giovane fra le sue. Si alzò più tardi e rivolgendosi alla padrona di casa: -“Pigliati assai fogli profumati (alloro, rosmarino ecc.) e li mittiti ‘ntra un quadaru e ci mittiti cincu lanceddi d`acqua, datici focu e facitili vuddiri. Di cinqu hannu a divintari trì. L’acqua cavuda la mittiti ‘ntra ‘na pila e ci ‘nfilati a vostru figliu. Si mentri lu lavati ci nesci sangu di lu nasu, allura vostru figliu eni sarvu, casinnò ciuncu eni e ciuncu resta”-. Cosi successe, le parole della donna si avverarono, il giovane appena immerso nell’acqua bollente prese a perdere sangue dal naso. Una settimana dopo, egli prese a muovere i primi passi. Fu di nuovo immerso in un bagno, su volere della maga, e questa volta nell’acqua erano state bollite erbe puzzolenti come la ruta, li “cucummareddi sarvaggi”. Dopo di che guarì completamente dal misterioso male e mai più nella sua lunga vita ebbe a soffrirne ancora. Secondo la maga, presso il masso, in tempi remoti era stato ucciso un uomo. Il suo spirito era rimasto imprigionato finchè non era stato liberato inconsciamente dal giovane corpo che si era steso sullo stesso punto.
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Lu dittu e l’abitudini
Gli usi e i costumi a volte si confondono e si perdono nelle credenze popolari, suscitando frequentemente la superstizione, la quale spesso è la risultanza di un costume di vita condotto in modo abitudinale. Ogni festa, ogni consuetudine assume nel tempo delle regole precise che finiscono per appannare la vitale freschezza che esse hanno avuto almeno in origine. Trasgredire ad esse non e possibile ai singoli individui a meno che non si voglia vivere in completo isolamento all’interno della propria comunità, in triste sconforto,
La tenuta dei conti.
Scarsa era la conoscenza ed “il saper far di conti”. Moltissimi bottegai e tavernieri usavano segnare i conti dei propri clienti sopra listelli di legno, incidendo sopra dei segni (tacche) con un coltello. “Mancia, vivi e signa a lu lignu” – si dice ancora oggi di colui che consuma qualcosa senza pagare il proprio conto. “Tracca” era chiamato il pezzo di legno su cui veniva segnato il debito dei clienti. A detta di chi ha vissuto abbastanza per ricordare, esso era un sistema molto semplice che non consentiva errori di sorta da parte del commerciante.
ll bucato
Per la mancanza di acqua, insufficiente comunque a fare il bucato, molte donne di tanto in tanto si riunivano in numerose comitive per scendere alle sorgenti di San Giovanni, dove si recavano per lavare i panni. Durante il viaggio, spesso cantavano e parIano fra di loro ad alta voce, da ciò il detto comune: “Parla forti comu ‘na lavannara”.
“Lu pani eni la grazia di Diu” perciò non va mai posato sotto sopra, pena il rischio di offendere il buon Dio.
Lu marinaru cu li lenzi vasci, prima abbannia li sardi e poi li pisci .
Cummari chiamativi la ‘atta
chi si mancia ‘na pirnici cotta
si veni me maritu, vi l’ammazza
bonu chi ci finisci
ni la fa ghiri cu l’ammuzza torta.
Il mulino
l vecchi mulini ad acqua che nella zona di Cellaro erano numerosi, macinando il grano, non separavano la farina dalla crusca. Gli uomini insaccavano il macinato e portavano tutto a casa dove la donna “la cirnia du voti cu lu crivu largu e du voti cu lu crivu finu”.
Abitudini del vecchio mulino ad acqua.
-“L’omini ci dicianu a lu mulinaru:
La farina falla veniri bbona,
e iddu prontu ci rispunia:
Si vò lu pisu
ti lu mettu ‘ncapu lu arraffu,
si la vò minuta,
ti fazzu anticchia di maccu.”-
-“Pupu di pezza, pupu di linazza
la genti comu tia su la munnizza
di genti comu tia nni fazzu l`ascia
li mettu a pipitusciu e poi cci pisciu.”-
ll rito nuziale sambucese,
ll cerimoniale sambucese era molto ricco di momenti comuni, di accordi che venivano stipulati fra le due famiglie. Si iniziava con il periodo del corteggiamento durante il quale il fidanzato rivelava alla ragazza il proprio amore. Per questo scopo, a volte era fondamentale inviare qualcuno a provare il terreno. A volte si dichiaravano le proprie intenzioni in modo spettacolare, andando a passare sono le finestre della ragazza amata la sera tardi, magari facendosi accompagnare da una chitarra per intonare lì per lì, alcune belle serenate. Alla fine vi era sempre qualcuno che si “tramizzava” per riunire le due famiglie e metterle d’accordo, per comporre il fidanzamento e concordare i beni da dotare ai due giovani una volta sposati.
ll fidanzamenlo “ufficiale” era dunque anche l’occasione giusta per ogni famiglia di svelare le proprie condizioni economiche e patteggiare la dote da assegnare ad entrambi i promessi sposi (le terre, il bestiame, il corredo ecc, ecc,). Era questo il momento di maggiore tensione perché entrambi le famiglie volevano dare poco e ricevere in cambio molto. Ecco che, in queste occasioni, si tirava fuori il grado sociale a cui ognuna delle due parti faceva conto di appartenere, e chi ne aveva poco da mostrare, doveva compensarlo con qualche tumolo di terra in più. Si arrivava infine all’accordo accettato da tutti o semplicemente imposto dal gruppo pin forte, e, finalmente, i due fidanzati ricevevano il permesso di mostrarsi in pubblico e di poter passeggiare (cu la cuda), debitamente accompagnati da madri, cugini zii. Si avvicinava finalmente il giorno fissato per le nozze: La notte precedente il matrimonio si andava a cantare sono la finestra dei fidanzati:
-“Vinni a cantari stasira a li ziti
Bongiornu e jornu cogli santitati.-“
E finalmente arrivava il sospirato giorno dello sposalizio che veniva celebrato di sera. Terminato il rito religioso, gli amici ed i parenti invitati si recavano a festeggiare gli sposi. Il locale era quasi sempre una casa spaziosa fornita da un amico dove erano stati portati precedentemente sedie e tavolini. Si “spinnianu li spinnagli” che erano quasi sempre paste, ceci, calia…e variavano ovviamente con le diverse condizioni economiche delle famiglie interessate. Agli invitati si offriva il rosolio, mentre delle simpatiche orchestrine iniziavano a suonare per richiamare la gente al ballo. Si beveva si mangiava e soprattutto si ballava spensieratamente fino a tardi. Infine i familiari e gli amici più intimi, accompagnavano gli sposini fin sono il portone della casa dove avevano fissato la propria abitazione. Ancora sono le finestre di casa, sostavano a lungo gli amici dello sposo a schiamazzare ed a lanciare lazzi all’indirizzo della coppia:
Poi si curcau lu zitu e la zita
pi lu matinu fari la ben livata.
L`indomani mattina, era d’uso fare la “ben livata”, sul tardi, per dar modo agli sposini di recuperare le energie spese nei giuochi amorosi. I genitori di entrambi i giovani si recavano in visita portando con loro cibi e bevande ristoratrici. Per un periodo fu anche in uso di stendere il lenzuolo macchiato di sangue che affermasse la reale verginità della ragazza, poi questa barbara usanza fu ricondotta a mero uso privato. Dopo otto giorni esatti dalla data del matrimonio, la coppia rientrava in società, andando a far visita alle loro famiglie e facendosi vedere a braccetto per il Corso con i loro vestiti ed i gioielli più belli (li vistiti di l’ottu jorna), spesso seguiti da un codazzo di parenti e di amici ma adesso il poeta popolare malignava:
Duppu lu misi poi ch’è maritata
La fimmina diventa vecchia
Arripudduta e mala ‘mpasturata
I’Ascensione.
La Sciausa, veniva celebrata con una Messa solenne di mezzanotte a cui partecipavano le mogli dei contadini in gran folla. Finita la funzione religiosa, le donne, tutte insieme, si recavano con una candela accesa in processione al Bevaio Amaro, dove le aspettavano i loro mariti con gli animali da soma. Unitisi, i coniugi, bevevano un sorso d’acqua, lavavano il viso agli animali e poi ritornavano a casa, ove raccolti i resti dell’alimentazione degli animali dalla mangiatoia, li portavano fuori in mezzo al cortile e li incendiavano in un grande falò. Ancora una volta il fuoco, il simbolo di purificazione, era l’espressione di un grande desiderio di sfuggire al male corruttore.
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Lu cuntu era a Sambuca (al pari delle altre comunità agricole) il mezzo pin comune per trascorrere qualche ora in compagnia, magari al buio perché l’olio, la cera ed il petrolio costavano e bisognava risparmiarli. Il cunto era per gli antichi ciò che per i contemporanei è il televisore. Io che ho vissuto personalmente la civiltà contadina, sia pure per poco, ricordo ancora molto bene come il “cunto” avesse un suo rituale. Era sempre il più vecchio che iniziava il racconto, fissando lungamente il fuoco, come per trovarvi concentrazione e fantasia. Egli cominciava il suo lungo e fantasioso racconto partendo da un canovaccio che, durante gli anni ed i secoli, aveva subito molte modifiche ed alterazioni, al punto che era ben difficile riconoscere in esso la trama originale. Lo stesso “cunto” raccontato anche solo per due volte di seguito dalla stessa persona, ma a distanza di qualche mese, sicuramente ad un osservatore attento non sarebbero sfuggite diverse alterazioni dovute all’inventiva dell‘uomo.
Le storie raccontate erano sempre le stesse “Sciuravanti, Rizzeri, La Bedda Setti velura, li Reali di Francia” ecc. ecc. Spesso ai vecchi personaggi ne venivano accostati di nuovi e più fantastici. Sempre vi era un incantesimo che costringeva un cavaliere errante a lottare duramente per sconfiggere il male e far trionfare il bene e la giustizia, A tutti gli ascoltatori si accendevano i volti alla speranza o si incupivano per la delusione man mano che il racconto avanzava e gli eroi erano travolti dalle passioni umane, la paura e la gioia semplice, capace di far sgorgare le lacrime.
La Madonna dell’Udienza
Una volta un contadino andò a raccogliere erbe sulla montagna di San Giovanni per farsi una minestra, nel chinarsi sopra un cespo di cicoria si accorse di qualcosa di strano, e scopri la statua di una madonna. Appena ritornato a Sambuca ne diede notizia ai capi del comune, i quali salirono sulla montagna e presa la statua la adagiarono sopra un carro tirato da buoi per portarla in paese. Qui si pensava di collocarla nella Badia di Santa Caterina, ma giunti innanzi al convento del Carmine, i buoi non vollero più saperne di andare avanti e si fermarono. Allora fu giocoforza collocarla in quella Chiesa dove si venera con il titolo di Madonna dell‘Udienza, ed è la protettrice di Sambuca.
Questa era la storia raccontata dal sacerdote Giuseppe La Marca e riportata dal Pitrè. Calca le leggende di tantissime altre Madonne ritrovate nell’isola, con gli stessi stereotipi, come l‘averla trovata per caso abbandonata in campagna, o come la volontà dell’effigie di volersi fermare in un luogo, concretizzata dal rifiuto dei buoi di proseguire oltre il cammino.
Lu funerali
C’era un campagnolu c’avia ‘na Jumenta
la vulia tantu beni, ci vinni ‘na mala vintura e cci muriu
Lu bon’omu jiu ni lu preti pi farici un funirali,
li girau tutti, e tutti a diri:
nun po essiri, nun si pò fari.
nni capitau unu cchiu furbu,
chi lu funirali cci lu fici
e cci detti vinti unzi e cucciddati trenta
picchi iddu cantassi la santa missa
ed ancora unzi vinti e cuciddata trenta
pi prigari pi l‘anima di la povira jiumenta.
La fimmina schetta
1° Parti
Vi parlu di la donna schetta
pi fari pulizia sempri si gratta
lu pettini ‘nda li mani, e si v’assetta
li capidduzzi soi lu pettini gratta,
si lava, e nni distrudi sapunetta
pi travagliari nun si malitratta
pi vinniri furmentu idda eni addetta
acqua d’aduri e meli s’accatta
e poi si va prisenta a la tuletta
chi pari cchiu bianca di la carta.
Si metti lu cursu e s`impetta stritta
comu Ia sarda d’intra la buatta
sempri va vistuta pulita ed adurna
chi quannu passa pari ‘na vintuliata.
II° Parte
Ora vi parlu di quannu si marita,
diventa ‘na scicazza ‘mpasturata
la sò facciuzza nun havi pruviglia saliata
pi falla cchiù sulenni e cchiù pulita
lu lettu si lu conza quannu scura
si fa la pasta, c’impiccica ‘nda li manu
`ncuddari nun la po a madaruccuni
poi la taglia a lasagni chiatti e chiani
chi po fari fusti a li sidduna.
La pulizia la fa pi lu ‘nnumani
piatta lassa lordi e quadaruni a pinnuliari
porta li suttani laschi, lu mussu untu di carvuni
Lu maritu si danna e si dispera
e malidici l’ura e la jurnata
chi a idda si pigliau pi mugliera,
Si cuntintassi essiri ’ngalera
e no aviri pi fimmina di casa ‘na macadura.
Quannu era schetta, puliticchia era
lu munnu cci paria ‘na chianura,
ora la so casa teni ’na jazzera
di la grascia di dintra nun havi cura.
Vi dicu chi nun su tutti ‘na manera,
ci su chiddi puliti di natura
chi la so casa tennu ‘na sciurera
finu a lu jornu di la sciuritura.
La truvatura
Un vecchio contadino, una notte ebbe in sogno la visione di un amico, morto da qualche tempo, che gli rivelò l’esistenza di un tesoro in un punto preciso di un suo podere: “Devi venire solo” – lo ammonì lo spirito – e porta con te nella lasca destra dei pantaloni un coltello col manico d‘osso ed una “pica” (corda) lunga venti palmi”. Per tutto il giorno l’uomo rimuginò sulla stranezza del sogno, era indeciso se seguire le istruzioni ed andarci o far finta di niente, d’altra parte l‘ora indicata dallo spirito era davvero insolita; le quattro del mattino! Un’ora in cui era ancora buio e lui francamente aveva un po’ paura. Decise infine di farsi accompagnare da un suo compare.
All’ora fissata, i due uomini si fecero trovare sul posto indicato dall’amico morto, un poi sarcastici, un po’ tremebondi e con gli oggetti richiesti dallo spirito. Presero a scavare sul posto individuato; un silenzio di tomba segnava il ritmare dei piccone, finche la puma dell‘arnese non rimbalzo sopra qualcosa di duro, che emise un suono cupo, come se il metallo avesse toccalo del legno. Quasi allo stesso tempo si udì molto forte un rumore di “babbaluci” schiacciate che li fece trasalire. Qualunque cosa la “truvatura” contenesse si era trasformato in resti di lumache.
Questo sortilegio, spiegarono più tardi alcuni esperti, ai due spauriti amici, era accaduto perché uno di loro aveva tradito la volontà espressa dello spirito e questi si era vendicato.
Giufà e i ladri.
Caminannu pi la campagna a Giufà cci vinni di fari acqua. Sapiti comu capita quannu si piscia idda arriva ‘nterra e va currennu facennu tanti viulicchia. Giufà si vota cu li viulicchia e poi ci dici: “Tu piglia di cca, tu piglia di cca (parlannu cu l‘orina) e mezzu cci sta lu capitanu” Giustu giustu dda sutta c’era ‘na grutta funna, china di latri chi si stavanu spartennu li sordi. Sintennu ddu parlari stranu, pinsaru cacati: “A santu Cristu, la liggi veni pi pigliarini – e lesti scapparu cu li tacchi ‘n culu si ficiru arrivari, lassanu ‘nterra li dinari rubati. Scinniu Giufà `nda la grutta e di maregni d’oru s’ainchiu la sacchina pi riturnari poi lestu e cuntenti a la casa.
Lu parrinu a morti.
Aria tinta c’era intra Sammuca, e certu nun era aria di muntagna chi scinnia diritta all’ossa, friddusa. Sta diffirenza Ia canuscia, mischinu, l’Arcipreti chi ,ogni matinu pi ghiri a diri Missa, a pedi, si facia la strata pi ghiri di la casa a la Chiesa. E sempri a mezza via ci tuccava passari davanti la sizioni cumunista e, mancu a farlu apposta, sempre c’era quarcunu chi a lu mischinu ci vulia rumpiri li coma. Puru dda matina, “a lu solitu Franciscu”, si cci parau davami un poviru pazzu: -“Abbassu stu parrinu”-, gridau a tuttu sciatu, e ‘n‘autru chi cci stava appressu tali Cicciu Attu chiassai spingiu la vuci pi sentisi cchiù spertu: -“A morti lu parrinu”-. Abbanniau pi tuttu lu chianu e s’assittau priatu. Comu Diu vosi, puru dda matina l’omo di chiesa trasiu ’nta la casa di Diu, suspirannu priaiu.
Li tempi canciaru, e Ciccu Attu fici li carti pi emigrari aIl`estiru. Mischinu: nun truvava travagghiu sufficienti pi manteniri la famiglia, ma cci bisugnavanu du boni paroli scritti dall`Arcipreti pi esseri acccittatu di lu sò patruni. Ciccu nun era minchia e di tuttu si ricurdava, perciò a lu sò postu cu la carta cci mannau la muglieri. L`omu di chiesa chi risposta pi forza ci vulia dari, la povira fimmina rimannau a lu mittenti. “A manu cci l’è dari stu documentu”.-
Dispiratu, Ciccu Attu si avissi scippatu la testa: -“Ah! fissa chi autru nun sugnu! Comu mi futtiu cu li me stessi manu”. Ma nun c`era nenti di fari e giarnu comu un mortu si cci va a prisintari.
-“Ti ricordi?” l’Arcipreti ci dumannau ridennu, poi arricriatu s‘allargau la tonaca e scorriggiau di longu. Cicciu muvia appena la testa, pi diri chi ancora nun si l’avia scurdatu.
-“Si ju ora fussi mortu, stu pezzu di carta nun ti l’avissi pututu firmari”- E sanz’autru parlari, lu documentu addisiatu cci misi ‘nta li mani.
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CANTI, NENIE E PROVERBI RELIGIOSI – “Li cosi di Diu”
San Micheli
San Micheli arcancilu, putenti e forti
aiutatimi a la vita e poi a la morti
chi beddu tu saria cantatu cu ddi grizzi
nasciu Maria e lu Spiritu Santu
si nni rallegra tantu quannu lu senti
cantati a Maria, angili e santi
cantati cu mia
cantamu lu rusariu a Maria.
Per l’AngeIo
Angeletto del mio Dio
che fai tu vicino a me?
Sono Vangelo del Signore
quando vegli o quando dormi
sempre, sempre, son con te.
Madunnuzza di ‘ncapu l’artaru,
l’ostia’mmucca e lu calici ’mmanu
A santi e picciriddi, Diu l’aiuta.
San Gisippuzzu quannu era malatu,
fici lu votu di jiri ‘n Turchia
San Gisippuzzu lu vicchiareddu
assittatu a lu vanchiteddu
manciava cosi fini
carni di porcu e tagliarini
Rosario cantato dai fedeli durame la processione dei Venerdì Santo mentre per le vie cittadine sfilava il corpo di Gesù accompagnato dalla Addolorata.
Gesù miu, cun dolu e figliu
comu e veru chi ti liò
sugnu statu un cori `ngratu
Gesù miu, perdono e pietà,
Gesù miu, la bedda facci,
ddu crudili ti schiaffeggiò;
sugnu statu un cori ‘ngratu
Gesù miu, perdono e pietà,
Gesù miu la bedda facci
chi di spini incurunò
sugnu statu un cori ’ngratu
Gesù mio, perdono e pietà.
Tu avivi la duci vucca,
chi di feli s`amariggiò;
sugnu statu un cori ‘ngratu
Gesù miu, perdono e pietà.
Gesù miu, li santi spati,
chi la cruci fabbricò
sugnu statu un cori ’ngratu
Gesù miu, perdono e pietà.
Gesù miu, li santi mani
Chi li chiodi divorò
sugnu statu un cori ’ngratu
Gesu miu, perdono e pietà.
Gesu miu, l’amanti cori,
chi la lancia ti squarciò
sugnu statu un cori ingratu
Gesù miu, perdono e pietà.
O Maria, tuo dolce figliu,
che ti uccise e ti rubbò
sugnu statu un cori ’ngratu
Gesù miu perdono e pietà.
Da sottolineare che colui che mi a cantato quanto sopra usava “jori” al posto di “cori”.
Anche se non hanno una lunga tradizione gli evangelisti sono presenti a Sambuca ed anche loro hanno via via dialettizzato la lettura di alcuni canti religiosi, eccone alcuni esempi:
Lu figliu prodigu.
Pensa chi figliu sei,
torna chi ju ti pirdugnu,
pensa chi patri sugnu,
torna, figliu torna,
torna a lu patri amanti
Ah!, quanti voti, quanti,
Gesù, ju prigai pi tia.
Pi terra, monti e vaddi,
di notti ju ti circai,
figliu miu… o dunni sii.
Torna, figliu torna,
torna chi si ben riu
e lu teniru amuri miu,
nun si cangiò pi tia.
Ju sentu la tò vuci
e vegnu a tia Signuri,
chi sarvi sangu nivuru
chi pirduni i piccatura.
Oh, caru amicu partu,
criannuti cu tia.
e tu Signuri sarvami,
pietà, pietà pi mia.
Bammineddu picciliddu,
lu me cori voli a iddu,
iddu chianci chi lu voli,
bammineddu arrubbacori.
Storiella.
Quannu lu Signuri jia caminannu, ‘ncuntrau a Santa Lucia chi chiancia e ci dissi: “ Bedda Lucia chi hai chi si accussi tristi?” Idda ci arrispunniu: “Haiu fitti all‘occhi”!
“Vatinni dintra lu me ortu e ti vai a cogliri gidi e finocchi; cu la manu la scippari e cu li pedi la scrapisari, cu la vucca l’hai a binidiri. Vai Luciedda e fai soccu ti dissi”.
Signuruzzu di munti vinutu,
tuttu lu munnu aviti firriatu,
nni mia sulu nun siti trasutu,
viniti ora e datimi aiutu.
E li monaci di lu santu casali
pi essiri fissa nun pottiru campari
Da Bivona.
Viva la Madonna di L’Ogliu,
la grazia jiu la vogliu,
la vogliu avanzi ch`é sira,
mannati l’acqua a li lavura,
li lavura nun ni vonnu chiù,
mannatila supra di nui.
Ho santissimu Harci Domu,
longa e grossa la vulemu… la spica.
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CANTI, NENIE E PROVERBI RELIGIOSI – “Li cosi di Diu”
San Micheli
San Micheli arcancilu, putenti e forti
aiutatimi a la vita e poi a la morti
chi beddu tu saria cantatu cu ddi grizzi
nasciu Maria e lu Spiritu Santu
si nni rallegra tantu quannu lu senti
cantati a Maria, angili e santi
cantati cu mia
cantamu lu rusariu a Maria.
Per l’AngeIo
Angeletto del mio Dio
che fai tu vicino a me?
Sono Vangelo del Signore
quando vegli o quando dormi
sempre, sempre, son con te.
Madunnuzza di ‘ncapu l’artaru,
l’ostia’mmucca e lu calici ’mmanu
A santi e picciriddi, Diu l’aiuta.
San Gisippuzzu quannu era malatu,
fici lu votu di jiri ‘n Turchia
San Gisippuzzu lu vicchiareddu
assittatu a lu vanchiteddu
manciava cosi fini
carni di porcu e tagliarini
Rosario cantato dai fedeli durame la processione dei Venerdì Santo mentre per le vie cittadine sfilava il corpo di Gesù accompagnato dalla Addolorata.
Gesù miu, cun dolu e figliu
comu e veru chi ti liò
sugnu statu un cori `ngratu
Gesù miu, perdono e pietà,
Gesù miu, la bedda facci,
ddu crudili ti schiaffeggiò;
sugnu statu un cori ‘ngratu
Gesù miu, perdono e pietà,
Gesù miu la bedda facci
chi di spini incurunò
sugnu statu un cori ’ngratu
Gesù mio, perdono e pietà.
Tu avivi la duci vucca,
chi di feli s`amariggiò;
sugnu statu un cori ‘ngratu
Gesù miu, perdono e pietà.
Gesù miu, li santi spati,
chi la cruci fabbricò
sugnu statu un cori ’ngratu
Gesù miu, perdono e pietà.
Gesù miu, li santi mani
Chi li chiodi divorò
sugnu statu un cori ’ngratu
Gesu miu, perdono e pietà.
Gesu miu, l’amanti cori,
chi la lancia ti squarciò
sugnu statu un cori ingratu
Gesù miu, perdono e pietà.
O Maria, tuo dolce figliu,
che ti uccise e ti rubbò
sugnu statu un cori ’ngratu
Gesù miu perdono e pietà.
Da sottolineare che colui che mi a cantato quanto sopra usava “jori” al posto di “cori”.
Anche se non hanno una lunga tradizione gli evangelisti sono presenti a Sambuca ed anche loro hanno via via dialettizzato la lettura di alcuni canti religiosi, eccone alcuni esempi:
Lu figliu prodigu.
Pensa chi figliu sei,
torna chi ju ti pirdugnu,
pensa chi patri sugnu,
torna, figliu torna,
torna a lu patri amanti
Ah!, quanti voti, quanti,
Gesù, ju prigai pi tia.
Pi terra, monti e vaddi,
di notti ju ti circai,
figliu miu… o dunni sii.
Torna, figliu torna,
torna chi si ben riu
e lu teniru amuri miu,
nun si cangiò pi tia.
Ju sentu la tò vuci
e vegnu a tia Signuri,
chi sarvi sangu nivuru
chi pirduni i piccatura.
Oh, caru amicu partu,
criannuti cu tia.
e tu Signuri sarvami,
pietà, pietà pi mia.
Bammineddu picciliddu,
lu me cori voli a iddu,
iddu chianci chi lu voli,
bammineddu arrubbacori.
Storiella.
Quannu lu Signuri jia caminannu, ‘ncuntrau a Santa Lucia chi chiancia e ci dissi: “ Bedda Lucia chi hai chi si accussi tristi?” Idda ci arrispunniu: “Haiu fitti all‘occhi”!
“Vatinni dintra lu me ortu e ti vai a cogliri gidi e finocchi; cu la manu la scippari e cu li pedi la scrapisari, cu la vucca l’hai a binidiri. Vai Luciedda e fai soccu ti dissi”.
Signuruzzu di munti vinutu,
tuttu lu munnu aviti firriatu,
nni mia sulu nun siti trasutu,
viniti ora e datimi aiutu.
E li monaci di lu santu casali
pi essiri fissa nun pottiru campari
Da Bivona.
Viva la Madonna di L’Ogliu,
la grazia jiu la vogliu,
la vogliu avanzi ch`é sira,
mannati l’acqua a li lavura,
li lavura nun ni vonnu chiù,
mannatila supra di nui.
Ho santissimu Harci Domu,
longa e grossa la vulemu… la spica.
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CANTI, NENIE E PROVERBI RELIGIOSI – “Li cosi di Diu”
San Micheli
San Micheli arcancilu, putenti e forti
aiutatimi a la vita e poi a la morti
chi beddu tu saria cantatu cu ddi grizzi
nasciu Maria e lu Spiritu Santu
si nni rallegra tantu quannu lu senti
cantati a Maria, angili e santi
cantati cu mia
cantamu lu rusariu a Maria.
Per l’AngeIo
Angeletto del mio Dio
che fai tu vicino a me?
Sono Vangelo del Signore
quando vegli o quando dormi
sempre, sempre, son con te.
Madunnuzza di ‘ncapu l’artaru,
l’ostia’mmucca e lu calici ’mmanu
A santi e picciriddi, Diu l’aiuta.
San Gisippuzzu quannu era malatu,
fici lu votu di jiri ‘n Turchia
San Gisippuzzu lu vicchiareddu
assittatu a lu vanchiteddu
manciava cosi fini
carni di porcu e tagliarini
Rosario cantato dai fedeli durame la processione dei Venerdì Santo mentre per le vie cittadine sfilava il corpo di Gesù accompagnato dalla Addolorata.
Gesù miu, cun dolu e figliu
comu e veru chi ti liò
sugnu statu un cori `ngratu
Gesù miu, perdono e pietà,
Gesù miu, la bedda facci,
ddu crudili ti schiaffeggiò;
sugnu statu un cori ‘ngratu
Gesù miu, perdono e pietà,
Gesù miu la bedda facci
chi di spini incurunò
sugnu statu un cori ’ngratu
Gesù mio, perdono e pietà.
Tu avivi la duci vucca,
chi di feli s`amariggiò;
sugnu statu un cori ‘ngratu
Gesù miu, perdono e pietà.
Gesù miu, li santi spati,
chi la cruci fabbricò
sugnu statu un cori ’ngratu
Gesù miu, perdono e pietà.
Gesù miu, li santi mani
Chi li chiodi divorò
sugnu statu un cori ’ngratu
Gesu miu, perdono e pietà.
Gesu miu, l’amanti cori,
chi la lancia ti squarciò
sugnu statu un cori ingratu
Gesù miu, perdono e pietà.
O Maria, tuo dolce figliu,
che ti uccise e ti rubbò
sugnu statu un cori ’ngratu
Gesù miu perdono e pietà.
Da sottolineare che colui che mi a cantato quanto sopra usava “jori” al posto di “cori”.
Anche se non hanno una lunga tradizione gli evangelisti sono presenti a Sambuca ed anche loro hanno via via dialettizzato la lettura di alcuni canti religiosi, eccone alcuni esempi:
Lu figliu prodigu.
Pensa chi figliu sei,
torna chi ju ti pirdugnu,
pensa chi patri sugnu,
torna, figliu torna,
torna a lu patri amanti
Ah!, quanti voti, quanti,
Gesù, ju prigai pi tia.
Pi terra, monti e vaddi,
di notti ju ti circai,
figliu miu… o dunni sii.
Torna, figliu torna,
torna chi si ben riu
e lu teniru amuri miu,
nun si cangiò pi tia.
Ju sentu la tò vuci
e vegnu a tia Signuri,
chi sarvi sangu nivuru
chi pirduni i piccatura.
Oh, caru amicu partu,
criannuti cu tia.
e tu Signuri sarvami,
pietà, pietà pi mia.
Bammineddu picciliddu,
lu me cori voli a iddu,
iddu chianci chi lu voli,
bammineddu arrubbacori.
Storiella.
Quannu lu Signuri jia caminannu, ‘ncuntrau a Santa Lucia chi chiancia e ci dissi: “ Bedda Lucia chi hai chi si accussi tristi?” Idda ci arrispunniu: “Haiu fitti all‘occhi”!
“Vatinni dintra lu me ortu e ti vai a cogliri gidi e finocchi; cu la manu la scippari e cu li pedi la scrapisari, cu la vucca l’hai a binidiri. Vai Luciedda e fai soccu ti dissi”.
Signuruzzu di munti vinutu,
tuttu lu munnu aviti firriatu,
nni mia sulu nun siti trasutu,
viniti ora e datimi aiutu.
E li monaci di lu santu casali
pi essiri fissa nun pottiru campari
Da Bivona.
Viva la Madonna di L’Ogliu,
la grazia jiu la vogliu,
la vogliu avanzi ch`é sira,
mannati l’acqua a li lavura,
li lavura nun ni vonnu chiù,
mannatila supra di nui.
Ho santissimu Harci Domu,
longa e grossa la vulemu… la spica.
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