POESIE
Antico acquedotto – Via Beccadelli – È presto sera – Il campo venduto – Impronte – L’ape un fiore non trova – Povertà – Mamma – Pianto tra le siepi – Povertà – Siculiana Marina – Rondini
DI GIOVANNA ALFONSO fondatore de “La Voce di Sambuca”, Alfonso Di Giovanna scrittore e critico, Alfonso Di Giovanna poeta.
Fin dalla giovinezza egli coltivò con costante partecipazione il seme della poesia e le sue prime liriche sono state pubblicate sulle pagine de “La Voce di Sambuca”.
Dell’estate del 1960 è la sua unica raccolta di poesia che ha per titolo “Agavi di Sicilia”, per i tipi della “Gastaldi editori” in Milano.
La poesia di Alfonso Di Giovanna è percorsa da un’umanità dolorosa piena di dignità e di fiducia nell’avvenire.
I versi del poeta Sambucese superano agevolmente il pessimismo tipico del popolo siciliano per sconfinare in situazioni che danno il senso della bellezza, della luce e della speranza “il miracolo è avvenuto in questo piccolo ma prezioso volume perché le immagini nei vari momenti della creazione artistica, proprio quando lo sconforto sembra prevalere, sono stati vivificati e sorrette dalla fede nel destino dell’uomo al di fuori e al di sopra della sofferenza…, perché così Dio ha voluto, perché così è scritto nella sua legge sapiente e eterna”.
(Calogero Oddo, “La Voce di Sambuca” agosto 1961).
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Tanti archi:
cavalli vecchi in fuga nell’ignoto,
tra la gobba della collina
e il vecchio Zabut, sul dirupo alzato!
Quant’acqua galoppante qui recaste,
sulle groppe d’onda inargentate.
Acqua di bosco, netta, cristallina,
e a quante bocche aride veniste!
O poveri cavalli, sempre andanti!
Uno, due, tre sono caduti;
gli altri non ce la fanno più,
ed altri ancora sembrano sfiniti,
a testa e coda; s’aiutano a vicenda.
Sotto le gambe arcuate passa il tempo,
fugge una strada sino alla montagna
e mane e sera, in tutte le stagioni,
uomini. greggi, macchine spavalde
lor coprono di polvere i garretti!
Fischia il levante tra sdentate forre,
sole e gelo flagellan le criniere
e più su miti spalle
non e quel refrigerio…
e al mio cuore quella pietra grida
e lacera la pena che m’attrista:
… uomini, greggi, macchine,
vecchi ronzini senza meta andanti!
Di quanta polve noi copriamo tombe!
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Da un muro all’altro,
sgretolato, solo,
gigante senza corpo:
un arco!
Un ciuffo d’erba porta sulle spalle
ed anni, molti anni,
e nulla più!
Erba di vento
che fa casa ovunque,
peranze che fan nido
in ogni crepa.
Le gambe varicate d’un ciclope:
non s’alzi verso il cielo
questa terra!
e preme forte.
E il ciel rattiene,
sulle curve spalle:
resta lassù,
non baciar la terra!
Statica l’anima guata
il sole sotto l’arco,
inquadrato,
e la luna
quando grande si fa.
– Una scala, una corda,
son tanto vicini!
Quando sotto ci passi,
son fuggiti
lontano sul monti.
É il tempo,
i tiranni misteri:
l’anima pende qua e là,
tra cielo e terra sospesi;
erba di vento tra crepe
e speranze!
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Quando sulle pareti di mia stanza
gli assi della finestra incrocia il sole,
e presto sera!
Dai fossi e dai valloni salgon l’ombre,
scavalcano i recinti
e coprono le chiome degli ulivi
e non lì vedi più.
Quando a conchiglia il petto diverrà,
il palmo della mano ed il giaciglio
di dolori pesto,
ed il patire crocerà le braccia,
e presto sera!
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Dal ciglio aperto
cose, sembianze care svaniranno;
l’ultima lacrima varcherà la soglia
e presto è sera!
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Era Piccolo;
oggi e scomparso, del tutto, venduto!
Due aiuole, pochi cipressi
lungo un viale:
a me questo piaceva
Oggi, che c’era il sole, andai lassù;
strappai due bacche secche dal cipresso
e giù nel pozzo, io, gettai una pietra
bianca, scovata tra le frasche morte:
Possa, tu, farti roccia
e unir le tue radici al Genuardo!
Ma non scordarti:
sulla tua cima recati un cipresso,
e quattro zolle nere di mia terra!
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Giace sospesa ancora
la gabbia verde sul murone grezzo.
É vuota. No! C’è qualcosa tutt’ora:
poche penne ed il fango
d’un corpicino d’uccello disfatto.
Dentro, nella casetta
pur’esso vuoto un seggiolone dorme
abbandonato:
solo, col peso d’un cuscino bianco,
reca le impronte d’un dolore morto.
Morì il suo amico,
morì anch’essa, la calandra vispa.
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L’APE UN FIORE NON TROVA
Aprile quest’anno
ai geli invernali e alle brume
d’un triste novembre si annoia.
Rondini poche ne vedo
e tisico è il fior della fava.
Asòlano invano
froge di mucche sognanti
che migrano a monte,
e tònfano rilenti i campani
nel cotone sporco dell’aria.
Piangono i vacui seni
borrane e cicorie,
erbe di siepi e di rogge,
che i pollini il sole non videro,
amor naufragato tra muffe,
sospeso ogni dì
alla cima d’aurore sperate.
Nel bugno vivacqua,
nel miele degli algidi giorni,
incolore,
l’ape che sole ridente
e un fiore
non trova.
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Cammini
e sempre l’ombra è appresso a te.
Sole,
luna,
lampada accesa
che gli atri abissi
fugano del buio
e giorni fanno
e notti pieni di luce,
mai vinceranno
di te l’ombra.
Or sui selciati,
sui prati verdi
sui marmi
e sugli asfalti
prolunghi di te stesso
un lembo nero
e non sarai mai solo.
Colloquio con la terra
e con le cose
che ignora la tua mente
e l’ombra Sto arrivando!,
piegata
anche sui chiodi,
su cocci di cristallo
ove giammai mano tua si posa!
Mai ti sei chiesto
perché un pò di buio
è appresso a te?
Se luce di pensiero,
cuore o d’amicizia
un dì vien meno,
sia l’ombra di te stesso
sempre teco.
Quello di te
che bacia sempre il suolo,
terra,
è l’ombra tua
che sempre
è appresso a te.
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Nel presagio
d’un cuore è la morte del figlio,
mamma, che scruti
negli occhi
questa mia desolata tristezza.
Non fossi mai uscito
dal seno,
atomo, frutto di cuori,
recluta al sangue di croce!
Ancora ti resta
di piangere queste tue viscere,
sulle ossa mie peste,
cucite!
Se dell’onor mia vita
val di più,
questa esistenza di tuo sangue
uscita,
non odiare.
Non dir: “Forse era meglio!
fosse morto allora!”
Ché raggio
di lucignolo, pur fioco,
val più d’un sole
negli spazi morto.
Nè traditor;
l’amor giammai tradisce,
mamma,
lo sai.
Troppo ho seguito,
contro il cuor la mente.
Quel che nel petto
a me hai dato trovo:
sangue del sangue tuo.
Quel che ragiona temo
contro il sentir del cuore;
atto d’amore,
mamma,
non maledire!
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Si riveston le siepi del giardino
le prode, i muri vecchi dei recinti;
s’ammantano, nel verde, i fili secchi,
le foglie morte del passato autunno.
Ma… anche le spine e i pruni senza vita,
il fil di ferro che protegge l’orto
ed è spinato, arrugginito, vecchio,
sembran vestiti!
Le pecore passando, pietose,
ciuffi di bianca lana, tra gli aculei
avevan lasciato, spettinati al vento.
Così li copre aprile ancor per poco!
Vengon gli uccelli:
Maggio non ama coltri sì pesanti!
e portan quei ciuffetti ai loro nidi!
Nudati or se ne stanno tanto tristi:
le spine e i pruni, e i fili arrugginiti:
alla gran festa della primavera
speravan comparir con quella veste.
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Giace sospesa ancora:
tradurre l’anima
mia e delle cose
per la pace e il conforto che bramo!
É freddo il vetro della mia finestra,
il cuore, la penna, la carta,
e fumiga un cippo di mandorlo
nel caminetto:
è verde e pieno dì muffa;
un arido fumo che strappa le lacrime.
Neppure il guizzo d’una piccola fiamma,
la goccia d’una parola
che consola!
Sono povero, ho freddo:
un verme senza il bene d’un abito suo!
Ghiaccio nel cuore
che aumenta il volume
e ti spezza il cristallo
d’una povera anima!
Solo… ! Col tic tac
d’un orologio stanco,
cosa posso dire
su questo foglio bianco
di neve
d’un misero cuore che geme?
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Questo è il mare;
e la frolla roccia di gesso,
al cielo aggrappata con bracci d’ulivi,
nell’onda annega,
in frammenti,
sua vana potenza.
In conca nascosta:
quattro case e una strada
che finisce mangiata dal mare;
poche barche all’asciutto,ammalate!
Su morbida arena
pesa una ciurma oziosa,
sul pelo dei flutti
pensieri attediati seguendo.
Non taglia più il tonno quest’acqua
che più non si arrossa di sangue;
non fiocine, lotte, mattanze
l’agguato di maggio!
Sicula marina,
serena
fuori del tempo affogata,
che tetti rispecchi
ed angoli squarci sull’acqua,
fammi obliare
i sentieri dei giorni,
le marce di nostra pochezza
in deserti assolati,
come pietra di gesso
che gratti col bacio,
di labbra spumose!
Atomi rendi mie ossa;
perle, conchiglie, in antri profondi,
del gesso un molluschio
ironico fa!
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Son tornate
di nuovo,
da me!
Sotto l’arco romito del tetto
eran venute l’altr’anno.
A settembre,
tanta mestizia,
non c’erano più.
Ora riattano il nido,
la casa.
Mettono toppe e ripari.
Tagliano l’aria dì guizzi
e l’azzurro di cinguettii.
Mi tagliano il cuore
invisibili lame d’argento.
Quel nido ha la forma d’un cuore;
é sì vuoto,
diruto;
non torna, non c’é
la rondine
per rifare questo cuore,
di nuovo.
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