POESIE
A Gnaziu Buttitta – ‘Na vuci a la scurata – Lu me Zen – Cunfissioni – A li me figghi – ‘Na vutata, ‘na girata – Lu vecchio – La luna – Lu quatru di la fantasia – Filu di pagghia – Storia e fantasia – All’ammasciatrici di la spiranza – Puema d’amuri longu ‘na vita – Chista è ‘na terra – Occhi i di matri – A Giuseppe Di Matteo – Lemmu di terra – Favula moderna
PREFAZIONE – L’incontro di Lina La Mattina con Ignazio Buttitta ormai sono trascorsi tanti anni da quel 1979 – è stato decisivo per il suo destino di poetessa. Non certo perché essa debba a lui la propria vocazione alla poesia e i modelli ai quali ha ispirato contenuti e forme della parola poetica. E neppure nel senso che la nostra autrice abbia assunto imitativamente quella buttittiana come lezione letteraria; ma perché in verità l’illustre poeta bagherese le consigliò – avendo in ciò bene intuito – di proseguire il cammino intrapreso, sopratutto nel praticare la scrittura dialettale che in lei si è sempre rivelata in tutta la sua efficace e sorprendente schiettezza. Affinché sia più chiaro il mio riferimento ad Ignazio Buttitta mi sia consentito di aprire una breve parentesi e di portare qui una personale testimonianza. Durante una cena estiva di alcuni anni fa in Morreale il celebre scrittore comisano Gesualdo Bufalino mi confidò che il ricevere giornalmente tante lettere, giornali, riviste, manoscritti di autori sconosciuti gli procurava molto fastidio, preso com’era piuttosto dalla cura che dedicava alle proprie faccende.
lo, negandogli forse ingiustamente la mia solidarietà, e anzi con un pizzico di maliziosa polemica, gli avevo replicato pregandolo di farmi sapere invece a chi e a che cosa sarebbe potuto servire il suo prestigio se non riusciva a farlo bastare soltanto che per sé stesso, se poi impreziosiva il simulacro di sé in una vetrina da cui non si potesse venir fuori. E aggiungevo – in verità poco garbatamente – che invece Ignazio Buttitta per costume e per natura stava esattamente sul versante opposto.
n effetti, il grande cantore de Il poeta in piazza avrebbe potuto restare anch’egli impigliato nella rete della propria celebrità e farsi succube del proprio personaggio chiudendolo in quella illusoria torre d’avorio che allontana lo scrittore dalla sua gente.
Ignazio Buttitta invece leggeva tutto quello che gli arrivava, vi si interessava, parlava con chiunque desiderasse di avvicinarlo, ascoltava molto volentieri i giovani poeti e ne incoraggiava i primi voli. E poi, ad ognuno scriveva una di quelle sue celeberrime dediche che, adesso che egli è scomparso dalle scene del mondo, potrebbero essere riunite in un volume di straordinaria originalità.
E così è stato pure con Lina La Mattina al suo esordio; della quale Ignazio Buttitta apprezzò subito favorevolmente sia l’amore istintivo per la poesia siciliana che, sopratutto, i risultati che l’autrice già allora dimostrava di saper conseguire con i propri versi; e ad essa indirizzò subito una delle sue famose dediche – particolarmente bella – il 29 settembre 1979 in cui la definitiva incisivamente «matri e pueta ca significa milli voti matri».
Egli, che della La Mattina aveva poi letto alcuni componimenti nel 1981, ne rilesse una nutrita silloge nel 1985 e scrisse alcuni versi che la poetessa palermitana volle pubblicare nel proprio volume d’esordio Chiddu ca nun si vidi (1995) e nei quali il suo giudizio critico è espresso con un lirismo assai efficace.
Una stella-madre, quindi, la poetessa Lina La Mattina: è stato un modo schiettamente buttittiano di rispondere alle provocazioni di una poesia che ha lo stile, il timbro e i messaggi quali la nostra autrice ha saputo ad essa dare.
E oggi, lontani i tempi di quei primi incontri, si può dire che Ignazio Buttitta – il quale critico letterario non è mai stato, ma che prontamente riconosce d’istinto il poeta di razza pur quando resti timidamente nascosto tra i versi inesperti di un principiante – abbia bene intuito e correttamente visto nel caso di Lina La Mattina. E la conferma è venuta peraltro dal successo che ha registrato il suo già ricordato primo volume di poesie siciliane.
Lina La Mattina ha cominciato a scrivere versi dialettali sul finire degli anni Settanta: ormai è un ventennio di vera e propria militanza letteraria. La scoperta della vocazione alla poesia è stata per lei nello stesso tempo la riscoperta del suo naturale, spontaneo modo di essere, il modo più significativo di situarsi in rapporto alla vita e alla natura, alla società e al sentimenti umani; è stato lo sbocco necessario di antiche malinconie, di lontane solitudini, germogliate già nell’adolescenza e rimaste per anni allo stato di latenza, senza una vera espressione, sedimentate nell’animo, compagne silenziose lungo tutta la sua vicenda di ragazza,poi di donna, di moglie e di madre. E ancora di figlia, di sorella, di cittadina; in altri termini, il sentimento della poesia in lei matura lungo tutta la sua esperienza di persona, nel coniugarsi fra loro di amarezze e di speranze, di aspettative e di dolori. Fin quando da quella esperienza nasce la poesia di Lina La Mattina, si fa presenza e di essa il verso si alimenta, di essa la parola ridisegna le ragioni. É nell’impatto con l’onda lunga delle emozioni suscitate da un evento sconvolgente come la morte del fratello (correva il 1978) che nell’animo di Lina La Mattina la poesia esplode, e si fa rabbia, rivolta, lacrima. Però l’atto poetico scava dentro una rabbia più antica, rimuove dolori e rivolte mai soggiogati, tocca irrequiete radici della memoria, della vita stessa.
Una vita che sicuramente avrebbe potuto essere dedicata alla severità degli studi, alle attenzioni letterarie, se Lina La Mattina ne avesse avuto l’opportunità nell’età della sua formazione. Invece lei è cresciuta in una famiglia di povere risorse economiche, in uno dei quartieri popolari della città di Palermo maggiormente segnati dalle piaghe della miseria, dove la gente s’inventa ancora oggi mille improbabili mestieri per sopravvivere. Di quella scuola amara e dura di vita, c’è oggi fedele memoria nelle poesie di Lina La Mattina. E in quella aspra scuola la nostra poetessa si è data, con il formarsi della propria coscienza civile e con l’educazione della propria sensibilità di donna, una gerarchia di valori morali e spirituali, ma anche sociali e civili, nel quali la dignità umana, l’integrità e la coerenza dei costumi dell’esistere, dell’esserci, si riportano ad un sempre meno incerto rifiuto dell’ingiustizia come male dell’uomo fino a diventare rivolta aperta contro la mafia. E allora la conquista difficile ma sicura delle sue basi culturali s’intreccia con la partecipazione interiore alle sofferenze degli emarginati, degli umili, degli «ultimi» come si è detto qualche volta, in cui infine il senso geloso della propria identità tutta da tutelare rispetto alle mortificazioni sociali di chi è abbrutito da Una esistenza di miserie diviene tutt’uno con le esigenze di una donna che avverte il formarsi in sé di nuovi richiami alla dignità, con le voci d’una cultura nuova che si contrappone al pregiudizio, al ristagno civile nei vicoli d’una
Palermo disperata; che fa tutt’uno con la grazia dei sentimenti, con le verità profonde dell’amore, con la forza rinnovante dei sogni e delle speranze, con il bisogno sofferto di certezze rimaste incompiute nell’età delle adolescenze, con il richiamo dell’anima ad una domanda ancestrale e insistente di protezione e di sicurezza; che fa tutt’uno, infine, con le forme più recenti della sua militanza civile.
Da qui dunque il suo cammino verso la poesia, che prima ancora che come evento letterario, è stato da lei avvertito come itinerario di emancipazione, come riscatto e come testimonianza di vita. In una prima fase, cioè nelle poesie di Chiddú ca nun si vidi, la testimonianza di sé è uno dei passaggi essenziali di tutto il libro. In questa seconda raccolta, più malinconicamente intitolata ‘Na vuci a la scurata, la testimonianza si fa più corale, si moltiplicano le voci che ne rappresenteranno l’esistenza.
A questo livello del ragionamento va precisato che Lina La Mattina fa poesia senza tradire le proprie radici e senza allontanarsene. Questo rende conto pienamente della scelta verso il dialetto effettuata dalla nostra poetessa, la quale scrive nella «sua» lingua, cioè in quel dialetto palermitano che imparò a parlare sin da bambina dalla voce quotidiana dei genitori, tra i banchi della scuola elementare, nel giochi d’infanzia, e ancora fino a quando non ha scoperto anche la lingua italiana come altro mezzo espressivo per la poesia: una fedeltà antica non solo al codice dialettale, ma contestualmente alla cultura e alla civiltà di cui esso è un segno storico.
Da quel dialetto di «quartiere» Lina La Mattina è partita per arricchirlo via via con i germogli della propria creatività poetica, con sempre più ampie competenze lessicali, morfologiche e formali. Non bisogna dimenticare di sottolineare che la poetessa palermitana non si attarda su di una concezione arcaica del dialetto, ma fruisce di un codice linguistico aperto alla modernità. Sopratutto utilizza i nuovi vocaboli che dal mondo contemporaneo, dalle mutate condizioni sociali di vita, sono penetrati nelle parlate e vi si sono incarnati con estrema naturalezza. Dialetto urbano e nello stesso tempo popolare, moderno, che smentisce il dialetto letterario dei poeti «culti» cioè quella artificiosa koínè dialettale che mai contagiò le voci più alte della poesia siciliana del Novecento. Sotto questo profilo Lina La Mattina è una bella voce poetica della Palermo di oggi che vuole parlare al mondo in termini di giustizia e di umanità, sopratutto in termini di riscatto e di promozione umana.
Vanno infine accreditate altre qualità intrinseche, in particolare considero la vivacità e l’efficacia delle immagini, dei simboli, delle metafore animate dai forti contrasti. Da una parte il bene e dall’altra il male, da una parte la vita e dall’altra la morte, da una parte la miseria e dall’altra il benessere.
Vita e poesia perciò sono inseparabili nel suo messaggio, che si rivela come un moderno annuncio di sicilianità dettato dal cuore antico della Palermo di oggi.
Palermo 19 giugno 1997
Salvatore Di Marco
PRESENTAZIONE
Non vi è nulla al mondo che appaia più siciliano della mafia. Ma noi siciliani sappiamo che non vi è cosa al mondo così nemica della Sicilia come la mafia. É la nostra tragedia, è stata per anni la nostra condanna, ha alimentato per anni la nostra rassegnazione. Siamo stati conosciuti con il volto e l’uniforme dei nostri nemici: noi siciliani vittime, eppure in quanto siciliani noi persecutori. Vi è una ragione: la mafia non viene dal nord. Pensate come sarebbe bello un giorno scoprire che la mafia viene dal nord; trovare in qualche convento o in una antica biblioteca la prova che la mafia viene dalla Germania, dalla Danimarca, dal Belgio… Purtroppo, purtroppo per noi siciliani, la mafia non viene dal nord, viene da noi, viene dalla nostra storia, dalla nostra identità.
Essa è stata ed è così penetrante, così difficile da sconfiggere perché ha usato noi contro noi, la nostra storia contro la nostra storia, la nostra identità contro la nostra identità. Così la mafia è stata alla Sicilia come il fondamentalismo è stato all’Islam. Criticavamo la mafia e qualcuno ci rimproverava dicendo che criticavamo la Sicilia; così come chi critica i fondamentalisti si sente rimproverare di essere contro Allah. Tutto questo incantesimo, il grigio rassegnarsi della palude è stato rotto quando negli anni ’80 e nel primi anni ’90 la mafia, peste cronica per decenni, si è fatta Peste acuta; e così non è più stato Possibile fingere di non sapere, non è stato possibile non sapere.
I ciechi hanno visto, i sordi hanno udito, i muti hanno parlato. E giorno dopo giorno ci riprendiamo la nostra storia, la nostra identità, la nostra cultura, la nostra città. E giorno dopo giorno riscopriamo, depurati dalla manipolazione mafiosa, i valori della famiglia, dell’amicizia, dell’onore… e anche il valore dello Stato. É bello: per noi siciliani amare la famiglia, coltivare l’amicizia, vivere da persone d’onore. A bello scoprire il valore dello Stato. A bello e non è più questo bello sprecato dalla mafia. Così una donna, una poetessa, un’opera letteraria in siciliano, non sono più sinonimo di passato ma divengono modernità e garanzia di futuro.
Una donna moderna è Lina La Mattina che per anni ha coltivato tra paure e speranze il sogno di un passato che si facesse futuro, di una tradizione che divenisse presente. Quel sogno oggi si avvera, può avverarsi; Lina La Mattina può sentirsi meno sola e le sue poesie appaiono finalmente pezzi di arte e di umanità. Auguriamoci che sia sempre e sempre più cosi.
Auguriamoci – deve essere così! – che non tornino più a sfregiare sogni e valori della nostra identità «finti» siciliani burattini e burattinai. L’opera di Lina ci fa ricordare che la mafia non è finita, ma ci fa ricordare che culturalmente è già giunto il punto di non ritorno, che oggi la mafia non ha più coraggio di parlare il siciliano. E Lina da anni pensa, sente, scrive in siciliano… e oggi, finalmente appare, come è sempre stata, moderna.
Leoluca Orlando
Sindaco di Palermo
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Gnaziu, ti vitti ajerì
e mentri chiancennu ti vasava li manu
‘ntisi ‘na vuci:
eri tu, assittatu sutta lu cèvusu
e mi parravi, mi cuntavi, m’insignavi,
eri tu, abbrazzatu a l’amanti
ca ti rideva dintra l’occhi,
eri tu, mentri acchianavi la scala
arrampicata a lu muru e t’appuiavi
a lu cori d’Ancilina pri nun cadiri.
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Ma nun c’eranu griddi nè aceddi cantarini
a fati l’ecu a li tò palori,
nun c’era lu mari cu li pisci d’argentu
c’ascutavanu di ‘nfacciu
e mancu lu suli e li muntagni d’Aspra
«supra la testa a salutari»!
Cantavi sulu tu nni lu silenziu
e canti nni la menti!
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La tò puisia ‘Gnaziu, ca pri tutti
è ventu ca sdradica pinzera
zappuni dintra l’arma
punzeddu ca pitta ‘mmenzu li neggghi;
pri mia, è puru ciatu
ca ‘nzinu a la morti mi portu;
è carni viva sutta la peddi spirtusata;
è ciumi chi curri, sdirrubba, trascina
è agugghia carripezza, arraccama,
funtana cabbivira, bracera chi quadia.
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Ti vitti ajeri ‘Gnaziu
cu lu cappottu novu di la festa
li scarpi e la burritta
prontu a parriri, cu la valigia pisanti
di lì jorna, prì l’ultimu viaggiu
ca nuddu ti potti sparagnari.
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Ti visteru di la tò bannera
ma nun vai a leggiri ‘n Cina o ‘n Siberia
e mancu a lì pedi di Lenin o di Majakovskij.
la cumèta ca passannu ‘mpindu ‘m Palermu
e ti vinni a pigghiari
a cavaddu di la sò cuda
di stiddi ti voli ‘mbriacarì
mentri aspetti lu bannituri cu la trumma
ca leggi la sintenza.
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‘Mmenzu jardina di mennuli e castagni
ti fa sentiri ciarameddi:
a sunari sunnu li pastura ca ,n terra avevanu
panzi schitti e caddi nna li cori.
Tra filera d’ancili d’oru
mpastati di meli… attrovi
li tò «picciriddi sfardati
‘nvidiati di li porci ca li videvanu
vistuti e senza cuda nna lu fangu».
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Ti porta vulannu supra lu ‘nfernu
a visitari puituculi e nnimici
ca ti misiru ‘ncruci, appagnati di li versi
ca ‘nchiuvavanu fascisti…
e nun sapevanu ca la puisia
abbatti mura, sfunna porti
squagghia cuddari di ferru!
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Ora, comu agneddi arrustuti
nni la fùrnaci sempri addumata
cu l’occhi e la lingua di fora
addumannanu aiutu:
vulissiru appinnuliarisi a li tò pedi
o macarì a li pinzera.
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Ti vitti ajeri ‘Gnaziu
nna l’occhi ca lassasti apposta a vanidduzza
nni la ‘ngagghia di suli c’arrubbasti a lù celù
nní la puisia c’arristò pittata
nni la facci bedda e risulenti comu quannu
cu ali di carta facevi vulari palummi;
capivu ca lu ‘ncuntrasti arreri lu Signuri!
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S’abbastassi cileppu
a sciogghiri amaru di lu pettu
siminassi ciura e addivassi lapi
prì cogghiti e spartiri meli.
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S’abbastassi acqua
a scrustari sangu di li strati
sfunnassi negghi e spaccassi muntagni
pri fari allavancari surgenti.
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Siddu un punzeddu pittassi allegria
oltri chi pueta pitturi mi facissi
e siddu nun m’abbastassiru fantasia e palori
culura a lù celu scippassi e all’arcubalenu.
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Siddu ‘na risata dassi risettu a li turmenti
iu arrubbassi chiddi di li picciriddi ‘nnuccenti
nni facissi cullani e campani d’argentu
e ‘n coddu l’appizzassi a la genti.
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Ma chistu è sulu
l’anticu foddi sonnu d’ogni pueta
lu cantu di ‘na vuci ca nasci a la scurata
e tutti li matini comu aceddu vola
a purtari la sò canzuna pri li celi.
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Ognunu havi lu sò Zen dintra lu cori!
Lu miu, ghiòmmarì di casi vecchi
era arruccatu dintra un curtigghiu.
Li scaluna gàvuti e traballanti
pareva purtassiru a cogghiri stiddi
e lu scaccheri dunni cu lu ciatu ‘n vucca
mi frmava, era l’astracu ca sutta ‘na zona di celu
mi faceva vidiri lu munnu comu fussi prissepiu.
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Du’cammaireddi, un muccuni di cucina
un cufularu sempri a lu scuru
e lu sulu ciàuru c’acchianava di fora
‘nzemmula a lu tanfu di lu cumuni
era lu casteddu di li principi rignanti
cu tuttu lu secutu di figghi e parenti.
Li porci di sicuru siavanu megghiu:
avevanu cchiù largu d’arrutuliarisi nni lu fangu!
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Una tavula scrustata, un cantaranu
quattru letti a leva e metti, sparti chiddu
cu tavuli e trispiti, e lu stipu sempri vacanti
era tuttu l’arredamentu; ma lu veru ‘nfernu
era quannu comu serpi di la tana
nisceva lu pitittu ‘nturciuniannu li vudedda
e lu friddu ca spaccava l’ossa
faceva strinciri e allargari la testa.
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Quannu ‘ncapu ogni lettu,
‘ncanciu di manti e cappotti
mittevamu pignati e vacili
p’arricogghiri acqua di celu.
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Ora haju l’ossa camuluti, lu cori sfattu
e pri li dulura nun dormu la notti.
Nun haju nè casa nè villa
nè cammarera nè pinzioni
ma nè iu nè li mè cincu frati
addivintamu mafiusi o dilinquenti
e scrivu puisia cu la foddi spiranza
di vidiri tirrimoti di giustizzia
e lampi d’onestà
agghiurnari dintra l’occhi di la genti.
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A mia, comu a tutti li pueti
ogni tantu la testa quarquadia:
vugghi e rivugghi la pignata sempri china
e senza ca li cercu vennu a galla,
fannu scuma li rigordi.
E iu, chi autru nun sacciu fari,
supra la carta sdivacu lu duci l’amaru
e tuttu chiddu ca comu agghia e cipudda
nun pozzu diggiriri.
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Lu saccìu ca nun è giustu
e qualchi vota fa tanfu di rancuri
‘nzoccu mi nescidi lu cori
ma iu chi pozzu fari siddu quann’era nica
cchiù d’amuri addattavu feli?
Siddu a mè matri ‘ncanciu di latti
sculava chiantu di lu pettu siccu!
Siddu pri mè patri fuvu scarabbocchiu
di cancillari di la menti!
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Siddu la zia ittava la pasta di la finestra
pri nun darimilla a mia!
Siddu criscivu a forza di pugna e carcagnati
di la genti pinzannu ca la vita fussi
un campu di cummattimentu!
Siddu puru di la nanna, ca è sempri chidda
c’addifenni, accupuna, amminzigghia
mi rigordu sulu quannu idda m’arruspigghiava
a li sei di matina grattannumi li pedi
pri ghiri a fari li sirbizza prima d’iriminni a la scola.
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Aveva ottu o novi anni
ma si mi videva davanti lu specchiu mi diceva
«alliscia sfilucchinu» o «culumbrina panarella»!
Chi pozzu fari siddu ora mi scantu
di la genti ‘nfami e senza cori
e comu armalu firutu nesciu l’ugna
e m’addifennu attaccannu?
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Nni la stasciuni cchiù cauda di la vita
quannu vostru patri avvampava d’amuri
e cu lu sudùri di la frunti
e li caddi nna li manu
azzappava la terra pri chiantari simenza
iu trimannu mi nsignavu a mpastari
pri fari pupiddi di zuccaru e meli.
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Nni la pignata di lu ventri misi
lu nostru amuri, li radichi, lu sangu
e sonnara ‘ncimati a li capiddi.
Agghiuncivu tuttu lu mè cori
la pacenzia, l’arti e lu curaggi
e aspittavu pri tri voti
novi longhi misi.
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Mentri crisceva la panza
e lu dulurì addivintava cuntintizza
e lu scantu spiranza
sfurnavu finalmenti allegri cuddureddi
cchiù tenniri e duci di la marturana.
4 gennaio 1997
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Quann’era nica
avia un sulu chiovu nni la testa:
dari a qualcunu l’amuri
ca nuddu potti dari a mia.
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Sunnava sempri di curriri,
di scappari paddivintari un’eruina
o macari purtari cunortu
dintra qualchi spirdutu lazzarettu.
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Ma li boni prupositi spissu
comu li sonnara, morinu a ghiornu:
‘na vutata, ‘na girata… e m’attruvai
Incatinata a maritu e figghi!
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‘Ná vutata, ‘na girata…
e mè figghia, già granni mi dissi:
«mamà, lassami rispirari…
m’accupi cu lu tò amuri»!
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‘Na vutata, ‘na girata
e comu aceddu lassò lu nidu:
cantannu cantannu si’ nni vulò
‘mpazzuta pri l’amuri d’un omu.
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Pri furtuna ogni tantu
quarcunu mi vineva a cunsulari.
«Sugnu la cuscenza, lu disiu
l’amuri e la spiranza» mi diceva:
«dallu a mia lu pitittu e l’arduri
chi ancora ti inchinu lu cori.
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Arriala a la genti gioi e turmenti
li sonnara e li battagghi di li tò jorna!»
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‘Na vutata ‘na girata…
e su’ quasi vint’anni
ca sdivacu petri a la marina
e chiantu dintra un puzzu!
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Sutta un celu vasciu e ‘nfruscu
c’arrubbava stiddi all’occhi
un chiantu accuratu
ca squanariava lu pettu
arrimuddò puru li petri
e detti vuci a la notti.
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Era d’un vecchiu lu chiantu
sfardatu e stancu
sdivacatu comu saccu di munnizza
gncapu ‘na gnuni di marciapedi.
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Cusà la pena
ca cci ‘nguttumava lu cori
e tineva carciarati
sutta lu pruvulazzu di lu tempu
li carni marturiati
e lu suli di ‘na risata.
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Ogni tantu, quannu ‘ncontru
un vecchiu minnicanti
cu la stissa facci siddiata di Cristu
ammugghiatu dintra lenzi di miseria
ca mancu havi la forza
di teniri all’addritta
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li quattr’ossa ‘ncrucculuti
di friddu e di malincunia
sentu un cutugnu dintra lu pettu e penzu:
«Ma chi razza d’armali semu
comu facemu a ‘nchiudiri la porta
lassannu fora di la cuscenza
lu munnu cu tutti li sò chiaja
cu tutti li sò ‘mbrogghi?
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Comu putemu dormiri, runfuliari
allianarini, manciari
senza ca nn’affuca lu muccuni
senza ca nni ‘mpinci lu rimorsu?».
ardo
le rondini.
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Lu suli ‘ntricanti comu l’occhi
ma cchiù di ‘na fimmina
senza chiavi trasi d’ogni porta.
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La matina ancora ‘mbriacu
di cantu di sireni nesci di lu mari:
adaciu adaciu acchiana, si ‘nfila, ‘mpinci, scafunia
trasi dintra li ‘gnuni, sfarda ogni velu
ogni filu di fumu, spirannu di ‘ncuntrari
qualchi stidda spirduta e trimulina.
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Ha ‘ntisu spissu parrari di ‘na cutra priziusa
arraccamata, di rappi d’argentu, sulitari e domanti
‘ntissuta cu lagrimi e storii d’autri tempi
ca lu celu stenni sulu quannu nun c’è iddu.
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Ci lu cuntò dda sparrittera
di cummari luna pri fallu ‘nvidiari
quannu panza a panza s’incuntraru.
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Però nun ci lu dissi ca ci nn’è puru vecchi
cadenti e morti, comu orbi e niuri pirtusa
muzzicati, arrusicati di camula antica.
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Nun ci lu dissi pri nun lu ‘mprissiunari
sapennu ca puru iddu farà la stissa fini
quannu nun havi cchiù oru d’arrialari!
12 aprile 1997
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Stanotti
assittata a lu scuru
cu li vavareddi
ancora ‘nfruschi di chiantu
mi spicchiavu nni la facci
siddiata di la luna
ca quagghiava ammucciannusi
‘nna ‘na ‘gnuni di celu.
Dintra lu puzzu di lu sò cori
vitti lu stissu pisu
li stissi petri.
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Chi scuru stasira:
isu l’occhi a circari li stiddi
ma nni lu celu arripizzatu
di la finestra c’è sulu idda:
la bedda ‘ncuntrastata
riggina di la notti.
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Idda di solitu sciacquata e splinnenti
stasira tampasia celu celu
dispirata e stanca
assicutata, ‘ncupunata cca e dda
d’un niuru, vunciu, priputenti nuvuluni.
Accussì sula, ‘ntuciata
spirduta e pirdenti
mi pari propriu ‘na fimmina!
18 marzo 1995
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Sutta un ficu ‘mpassulutu
arraccamatu di suli e di negghi
pupi di carta s’annacanu leggi
nni ‘na jurnata di sciloccu.
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Assittati attornu di ‘na tavula
comu fussi bracera di ‘mmernu
cunta la nanna ammugghiata
dintra mergula di sculuruti rigordi.
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Li trizzi ‘nturciuniati a cudduredda
supra la testa china di pruvigghia
e l’ossa e la peddi striminziti
pri cusà quali battagghi nni la vita;
leggi storî d’autri tempi
nni lu libru di la menti
lassannu alluccuti picciutteddi
ca comu li griddi nun posanu ‘n terra.
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Allatu, sdivacata a panna all’aria,
‘na gatta pigghiata di lagnusia
sunnagghia, e la prevula sazia di suli
arriala panara chini di biunna racina.
Gaddini, porci e aceddi, ogni tantu
s’accordanu cu li palummi
e mentri priparanucuncerti
lu mari sulista fa cantari l’unni.
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Nespuli, cirasi e ciura
arrampicati a ciancu di ‘na casa
ca pari nisciuta d’un quatru
o di la fantasia d’un pueta,
‘nzemmula a li muntagni ‘ntornu
(paraventu all’occhi di lu munnu)
fannu priziusa curnici
a ‘na ‘gnuni di paci ‘ntamata.
14 aprile 1997
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Tant’anni ca staju sutta lu celu
e m’addugnu sulu ora
ca lu mè puzzu è senza funnu.
Quantu feli c’agghiuttivu
straminata di la sorti
quantu rabbia mi rivugghi
comu mustu nna lu pettu.
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Pri ‘na fedda di caluri
e spichi d’oru tra li negghi
‘ddu ‘mbrugghiuni di lu suli
quantu voti mi ‘ngannò.
Mi cridia stagnu lippusu
sugnu ancora mari apertu
pigghiu ‘mprestitu a lu ventu
un ciusciuni pi ciatari.
.
A migghiara stiddi arrobbu
p’addumalli dintra l’occhi
p’annacarimi li sonnara
mettu la naca nna lu cori.
A lu «pupu» sfasciu la corda
a lu ciriveddu levu l’aricchi
a li disii e a li dulura
comu aceddi dugnu l’ali.
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Sugnu ancora filu di pagghia,
ca cu nenti pigghia focu
e sunnu tanti li pignati
chi haju ancora a scummigghiari.
febbraio 1987
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Un ghiornu ca nun aviva chiffari
la menti ‘ncignusa di Diu
cu ‘na risata e un pugnu ‘sta terra parturìu.
La ‘nfasciò dintra un cannistru
cu zagara e limiuna, e comu naca adaciu
la pusò ‘mmenzu lu mari.
Ci fici ‘ntornu ‘na scugghiera,
d’innacu pittò un pezzu di celu,
di sita arraccamò la luna
e d’argentu ‘ncuddò li stiddi.
Poi detti ciatu a li trummi:
spuntaru santi, àncili e pueti
fimmini cu l’occhi niuri e lucenti
e omini fantasiusi cu vucchi ardenti.
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Ci misi pri finiri un vinticeddu
ca stati e ‘mmernu annaca chiuppa e alivi
tramunti e suli
ca fannu di curallu celu mari
e ciura, ciauri e aceddi in quantità.
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Fu ginirusu Diu, nun c’è chi ddiri,
e di ‘sta granni ‘mprisa si nni priava.
Ma un ghiornu
ciarmulizzu di scuntentu acchianò ‘n celu.
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Lu Signuri tistiannu ascutò li laminteli:
taliò arreri, Tavormina,
Muncibeddu, ‘a Conca d’oru,
e ‘nchiudennu la finestra dissi è veru
troppu ricchizzi dintra ‘na truscia!
Pigghiò la valanza, pisò cu giustizzia
fu daccussì ca un sicilianu p’ogni tri
addivintò priputenti!
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Passò lu tempu, seculi e anni
e di lu paradisu semu junti a lu ‘nfernu.
La priputenza cu passi longhi
s’allargò a lu munnu!
Ora è n’armalu
ca tuttu voli, tuttu pigghia, tuttu affuca.
Lu mari addivintò ‘na cascia
li strati campusanti
l’aceddi stannu scumparennu
lu suli camulisci e mori
e la luna, fimmina sbannuta, chianci.
E nuddu parra, nuddu dici nenti.
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Però, nna l’ultimi anni successi un fattu staanu:
di Trapani a Messina, di l’Etna a la marina
crisceru a lu celu cu radichi di sangu
prevuli ‘mpunenti
cu fili e rami ‘nturciuniati a la genti
pampini di chiantu siccati a lu ventu
e racina… ‘mpassuluta di spiranzi.
.
E foru iddi: li morti ‘nnuccenti
ca senza scantu vinnignaru!
E semu nuavutri pueti,
picciotti, fimmini e parrina
ca curremu strati strati ‘mbriachi di ‘stu vinu
ma sempri a Tia Signuri purtamu dimustranzi.
Pirchì nun t’affacci arreri
di ‘na ‘gnuni di ‘stu celu
pri vidiri lu dannu chi facisti?
Pi quattru petri a mari e quattru stiddi
‘nfruscasti cori e ciriveddi!
.
Pirchì Signuri nun pigghi arreri la valanza
t’adduni ca lu cuntu cchiù nun torna
ora ca tuttu fu distruttu
rimettici la corda a la cuscenza…
vulemu l’omu onestu di ‘na vota!
5 marzo 1996
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ALL’AMMASCIATRICI DI LA SPIRANZA
Parti arriva va luntanu
acchiana e scinni di l’aeriu
e comu aceddu è sempri ‘n volu.
Ventu trona gammi rutti
nun la ferma nuddu e nenti!
Chesi e scoli sempri chini di picciotti e di parrini.
.
Parti Rita, penza e cunta:
di lu frati, di li jochi, e di quannu
giudici, oramai stancu, nun si vosi arrenniri
mancu doppu la morti di l’amicu!
Campava assirragghiatu pi nun cadiri
comu musca nni la riti,
spinnatu di curriri comu ventu strati strati.
.
Facia la vita di n’aceddu carciaratu
pigghiava l’aria a muzzicuna.
E poi ‘na duminica sutta lu suli cucenti
nun muzzicò cchíù nenti, nè mafia nè mafiusi:
arristò ‘n cruci susta la casa di la matri!
.
Nun c’era Rita!
Nun c’era m’annurbò pi lu duluri,
e la bumma ca nni la vucca sgangulata di la strata
sei ‘nnuccenti s’agghiuttiu
sfardò puru lu velu c’ammugghiava la sò vita!
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Parti Rita, penza e cunta
di la notti
di la vuci ca ci parra `nzutta ‘nzutta
di lu fittu ciuciuliu e lu stranu vinticeddu
chi accarizza via D’Ameliu.
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Di la fidi e lu pirdunu
di la matri e lu turmentu
e di comu a vrazza aperti
idda aspetta lu mumentu
di juncirisi a lu figghiu!
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Parti Rita, parti e cunta
di l’alivu cosa strana
ca scippatu e vinutu di luntanu
atticchìu dintra ‘na fossa
ed è carricu di paci, ed è carricu d’alivi.
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Torna Rita, torna e cunta:
a li voti nun lu fa cu li paroli
ma nna l’occhi senza chiantu
s’assicutanu palummi e s’agghiuttinu rigordi.
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Parra cunta e la genti cchiù nun ciata
parra cunta e la genti si cummovi
parra cunta e nni la genti ca l’ascuta
nasci lesta ‘na bannera!
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Ma nun havi tri culura e nun è di lu partitu
la bannera di la vita è chiantata
‘nni lu celu di lu cori!
Ed è lu ventu di spiranza ca la fa sbintuliari!
8 marzo 1996
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Nascisti nni ‘na terra
dunni puru l’aceddi
addivintaru malantrini ma tu nun lu sapevi
quannu pi sbagghiu accumunciasti
Nun lu sapevi quannu lassasti
mineri di suli e pruvulazzu di luna
‘mmenzu ciarusi jardina.
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Nun lu sapevi ca loru cchiù priziusu
ciurisci cu li caddi di li manu
e s’annaca ‘mmenzu li pampini.
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Nun lu sapevi ca è l’occhiu divinu
e lu suduri di la frunti ca ‘nfascia
muntagni e vaddi cu lenzi d’oru
pi ghìnchiri la panza a li puvireddi,
e la notti quannu stanchi dorminu
comu nni ‘na favula l’argentu cadi di lu celu
‘ntamannu pisci e piscaturi.
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Ma tu nun lu sapevi… eri nicu
quannu linnu linnu ti nni isti
nun putevi sentiri muzzicari la cuscenza.
E nun fu nni la terra di lu focu
ca l’amuri t’avvampò lu cori e t’incantò
cu vuci di sirena attaccannuti li manu.
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Nun c’eri e nun c’eranu mancu
migghiara d’emigranti quannu
la malancunia pri li megghiu figghi persi
sfunnò lu vecchiu cori di lu suli
spurpatu comu ossu
pirchì ognunu si nni purtò un pezzu
p’aviri ogghiu a la lampa e nun sintirisi
appagnatu e persu nni lu disertu di la vita.
.
Nun c’eri nni ‘stu ‘nfernu
quannu ordi di barbari
accuminciaru ad abbruciari la terra
dunni mittevanu li pedi
quannu tirrimotu mafiusu
accuminciò a sdirrubbari culonni di sustegnu
ca Colapisci picciottu ginirusu ancora reggi.
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Nun c’eri, ma cusà siddu la varca
di la menti fici acqua, culò a piccu
e comu ogghiu acchianaru a galla li rigordi?
Cusà siddu pinzavi a ‘na bracera di suli
quannu l’ossa accuminciaru a camuliri
sutta un celu friddu e sculurutu?
.
Cusà siddu la cannila
c’adaciu adaciu s’astutava
lassannuti scurusi l’occhi
e ‘nzuvaruta l’arma ti ficiru diri:
«Tornu matri nobili e antica
ca mi dasti lu ventu pii ciatu
e li tò radichi pii crisciri e caminari!
.
Tornu ora ca figghi ingrati
ti misiru a facci abbuccuni
e t’arridduceru un culabrodu!
Tornu Sicilia
tornu e mi ripigghiu lu cori
ca senza sapiri a tia lassavu»!
29 agosto 1995
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Cu’ va e cu’ veni
cu’ mangia e cu’ talia
cu’ ridi spinziratu e cu’ nun dormi
cu’ accatta mari e suli
e vinni lagrimi e cuscenza
e cu’ s’arrampica supra li specchi
e doppu pigghia sciddicuna orbi.
.
Chista è `na terra di santi e diavuli
di servi e di patruna…
Unica sutta lu celu
di tutti amata e scarpisata
comu ‘na fimmina sciacquata e bedda
ma tosta e sfruntata
ca metti ad arti ogni cosa
vutata sutta ‘ncapu.
.
Chista è ‘na terra di meli e di spini
dunni lu mari dormi abbrazzatu
a lu celu e all’arcubalenu
accarizzata di zefiru
alluffata di sciloccu
ma siddu sai grapiri l’aricchi
‘mmenzu arvuli e muntagni
po’ sentiri la vuci eterna di l’Onniputenti.
.
Pò sentiri canzuni d’amuri e di pena
di vecchi pastura e carritteri.
.Pò sentiri lu chiantu
di fimmini ‘ngannati di l’amuri
e lu lamentu di l’acqua
lu ventu e l’onuri ca si spersiru
‘mmenzu a rivuli e vadduna
‘n cerca di lu tempu ca nun torna.
.
Chista è ‘na terra accussì bedda
ca manca lu ciatu sulu a talialla
pari pittata ‘mmenzu lu mari
cu varchi, riti e pisci d’argentu
c’abballanu dintra li panara.
Tra mennuli, aranci e cirasi
persichi, murtidda e pruna
si divirtiu lu pitturi a ‘mpastari culura:
nni fici di tenniri e duci
comu li ciura, ferva, l’amuri
e nni fici di forti comu la miseria, lu sangu e lu duluri.
.
Forti e pisanti comu certi sapuri
ca nun si ponnu diggiriri:
guasteddi caudi cu meusa e ricotta
cu feddi, panelli e cazzilli
e stigghiola capunata
frittula e babbaluci
pi grapiri lu pitittu, dicinu
comu siddu ci nni fussi picca genti cu la panza vacanti.
.
E nun fa nenti siddu pò ‘nchiumma nna li vudedda
comu cutuliata di mitragghia c’arriva a li spaddi
mmenzu sdisulati campagni, ‘ncapu li marciapedi
cu li stuppagghi nni la vucca o ‘ncaprittati
‘mmenzu la munnizza allatu di mugghieri e figghi
o ‘mmenzu la genti ca va bistimiannu
pirchì nun sapi chi ‘mbrogghi p’arrivari a la sira.
.
E pò la notti stenni lu sò velu
‘ncapu lu munnu e lu silenziu
‘ncapu la morti e lu chiantu
e mentri la giustizzia ammogghia marreddi
e fa ‘nzirrari occhi e casciuna
la genti stanca ca nun voli cchiù pinzari
ripigghia a dormiri e a manciari.
Chista era ‘nzinu a jeri la mè terra:
dumani, forsi, cusà!
28 agosto 1995
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Cusà pirchì
ci sunnu occhi di matri
distinati a divintari
funtani sicchi
o a sentiri ‘nzinu a la morti
li dogghi di lu partu
quannu ci scippanu
l’agneddu di li crapicchi.
.
E s’arrifriscanu
li carni e l’occhi
sulu siddu ogni tantu
si li ritrovanu ‘nzonnu
ca nun àppiru tempu
di vidiri lu figghiu
comu lu vitti la Madonna
misu ‘n cruci,
.
nè truvaru manu piatusi
ca cugghiennulu di `n terra
comu cartedda d’ossa
ci lu misiru nna li vrazza
pi strincillu l’ultima vota
supra lu cori…
7 giugno 1996
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Santinu, lu patri, dicinu ca era
mafiusu, assassino e senza Diu
ma cu lu tò aiutu, Signuri, si pintìu.
Ora forsi, è ‘na pecura attruvata
‘mmenzu li mannari di la vita
e puro si li sò manu chiovinu sangu
lu cori, fascedda di ricotta primusa,
scola chiantu d’ogni pirtusu.
.
È vero, Signuri, ca l’omini semu
miserabili pupi ‘mpastati di fangu
‘ndigni d’isari l’occhi a lu tò cori
pri tutti li voti ca t’avemu chiantatu li chiova
ma tu, Signuri, comu putisti pirmettiri
ca ‘n’antica liggi facissi pagari a lu ‘nnuccenti
lu debito ca lu patri fici assummari
‘nta lu jocu azzardusu di li sò jorna?
.
Comu putisti pirmettiri ca Giuseppi
vinnutu (non di li frati
comu dici lu vecchiu libbru ma di la mafia)
fossi comu a Tia e tanti autri Cristi
l’agneddu ca paga piccati a lu munnu?
Comu putisti Signuri
taliari dintra li sò occhi
sgranati pi lu scantu, dintra li manu vacanti,
li capiddi di sita, la facciuzza di cira
squagghiari adaciu adaciu
senza fulminari li cani rabbiusi
ca dumila anni di fidi e civilitati
lassaru scecchi e analfabeti?
.
Pirchì, Signuri, sempri cchiù spissu
c’è bisogno di sfunnari cori di matri
pi junciri a lu pintimentu di tanti
ca ogni ghiornu si perdinu
dintra lippusi stagni di piccati
e scurusi vadduna di vinnitti?
E quantu agneddi di latti avemu a vidiri
scannari supra l’altaru di lu tempo
prima ca l’omini grapinu l’occhi
all’amuri e a lu pirdunu?
.
Lu sacciu Signuri!
T’avissimu a diri grazii
ca forsi scansasti a Giuseppi
la stissa ‘nfami sorti di lu patri
ma iu nun haju la tò forza Signuri
picchì comu Maria, sugnu sulu ‘na matri!
6 maggio 1996
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Nni ‘stu lemmu di terra
spaccatu e anticu
quasi quantu
lu priziusu viddicu
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dunni puru la mimoria è ‘na petra
arrusicata di lu tempu
e lu suli lampa c’abbrucia
russa di vriogna
.
dunni ancora s’ammazza
pri `na fimnina
o pri n’offisa
cu ‘na taliata
o ‘na livata di coppula
.
dunni sunnu tanti li picuruna
ca s’inchinanu a vasari manu assassini
pi nun tradiri favuri antichi
e ‘mbastarduti codici d onuri
.
c’è ancora pi furtuna
cu’ scummogghia pignati e arripezza
cu lu filu di lu ciatu
e l’agugghia di la viritati
.
camula d’indiffirenza
e pirtusa di chiummu
nni la grossa trama urduta
di silenziu e ‘nganni.
28 maggio 1996
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Santinu, lu patri, dicinu ca era
mafiusu, assassino e senza Diu
ma cu lu tò aiutu, Signuri, si pintìu.
Ora forsi, è ‘na pecura attruvata
‘mmenzu li mannari di la vita
e puro si li sò manu chiovinu sangu
lu cori, fascedda di ricotta primusa,
scola chiantu d’ogni pirtusu.
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È vero, Signuri, ca l’omini semu
miserabili pupi ‘mpastati di fangu
‘ndigni d’isari l’occhi a lu tò cori
pri tutti li voti ca t’avemu chiantatu li chiova
ma tu, Signuri, comu putisti pirmettiri
ca ‘n’antica liggi facissi pagari a lu ‘nnuccenti
lu debito ca lu patri fici assummari
‘nta lu jocu azzardusu di li sò jorna?
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Comu putisti pirmettiri ca Giuseppi
vinnutu (non di li frati
comu dici lu vecchiu libbru ma di la mafia)
fossi comu a Tia e tanti autri Cristi
l’agneddu ca paga piccati a lu munnu?
Comu putisti Signuri
taliari dintra li sò occhi
sgranati pi lu scantu, dintra li manu vacanti,
li capiddi di sita, la facciuzza di cira
squagghiari adaciu adaciu
senza fulminari li cani rabbiusi
ca dumila anni di fidi e civilitati
lassaru scecchi e analfabeti?
.
Pirchì, Signuri, sempri cchiù spissu
c’è bisogno di sfunnari cori di matri
pi junciri a lu pintimentu di tanti
ca ogni ghiornu si perdinu
dintra lippusi stagni di piccati
e scurusi vadduna di vinnitti?
E quantu agneddi di latti avemu a vidiri
scannari supra l’altaru di lu tempo
prima ca l’omini grapinu l’occhi
all’amuri e a lu pirdunu?
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Lu sacciu Signuri!
T’avissimu a diri grazii
ca forsi scansasti a Giuseppi
la stissa ‘nfami sorti di lu patri
ma iu nun haju la tò forza Signuri
picchì comu Maria, sugnu sulu ‘na matri!
6 maggio 1996
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