ORIZZONTI LONTANI – Salvatore Maurici

Salvatore Maurici
ORIZZONTI LONTANI
Centro Civiltà Mediterranea
“Editrice “Lo Studente”



Ai miei genitori,
agli emigranti
di tutto il mondo

 

 

PRESENTAZIONE

Non so chi e se Salvatore Maurici abbia in mente di dedicare il suo libro. Nei fatti lo ha dedicato alla generazione dei giovani nati all’inizio degli anni ’70, o giù di li, a quei giovani che vestono una qualche firma, si nutrono di panini, pizze, pop-corn, frequentano le discoteche e che, per socializzare, ritengono indispensabile il “motore” e trasformano l’auto in salotto, a quei giovani che, per un processo di omologazione promosso dai grandi mezzi di comunicazione di massa sono simili negli atteggiamenti ai loro coetanei di una qualsiasi parte del mondo “civilizzato” dalla televisione.
I figli degli anni ’70 sanno tutto di Maradona, del campionato di Formula uno, di Madonna ma sono lontani anni luce dalla memoria di ciò che hanno patito i loro padri ed ancor più i loro nonni per spezzare l’assedio di una vita grama e piena di sacrifici e costruire un altro futuro.
Orizzonti lontani” senza volerlo ostentare è un viaggio nella memoria che diventa monito. Su uno scenario su quattro continenti si muovono alcune figure di emigrati sambucesi, agnuna con la propria storia vera e dolente che con quella degli altri ha in comune enormi sacrifici economici affrontati per partire “in cerca di fortuna“‘, il trauma della separazione dalle persone care e dal paese, lo sgomento di un viaggio incontro all’ignoto, la mutilazione psicologica di chi accorgendosi di non comprendere e di non riuscire a far comprendere il proprio linguaggio è di fatto minoranza.
Diversi gli esiti di queste scelte: c’è chi è riuscito ad integrarsi tanto da sentirsi cittadino del paese d’emigrazione, chi non è riuscito a resistere che per lo spazio di tempo necessario a raggranellare qualcosa ma c’è chi non è riuscito a superare il trauma dell’emigrazione ed è tornato al paese e chi, storie tristissime sofferte coralmente dalla comunità, al paese è tornato in una bara. Fra questi brandelli di vite s’intravedono avvenimenti più grandi ed incombenti: le guerre, il fascismo, le lotte contadine, la miseria del secondo dopoguerra per cui l’avere un parente negli Stati Uniti poteva significare la fortuna di ricevere il “pacco“.
I sentimenti più intimi traspaiono dalle lettere, essenziali nei contenuti ma ricche di forme e termini dialettali ed in cui l’ansia di avere notizie di chi è rimasto, di chi è emigrato in altra parte si mescola alla nostalgia per Sambuca, i suoi cortili, le sue campagne.
Il grande merito dell’Autore è averci riproposto questa realtà, ignorata dai più giovani e rimossa da chi l’ha vissuta con quel pudore dietro cui si cela la sofferenza.
Il lavoro di Salvatore Maurici ha per la comunità sambucese l’indubbio valore di una pagina da far confluire nel grande volume della Storia, motivo più che valido per non essere dimenticata.

Anna Maria Schmidt


INTRODUZIONE

Alla luce dei comportamenti studiati, l’emigrante meridionale, particolarmente quello sambucese, anche se vive da moltissimi anni fuori Sambuca privo di contatti periodici con i luoghi d’infanzia, e pur integrato nel nuovo contesto sociale in cui è venuto a trovarsi, rimane fortemente legato al luogo natio, alla sua memoria storica. Bisogna ricordare anche che questi sfortunati figli di Sambuca, hanno vissuto nel nostro paese in anni in cui esisteva in loco una notevole mobilitazione politica, forti slanci ideali, un grande attaccamento alla propria famiglia intesa in senso molto ampio. Trasferitisi lontano dal paese nati0, essi hanno portato, assieme al pochi oggetti rinchiusi in una povera valigia di cartone, cristallizzati nel tempo, i ricordi d’infanzia e gran parte di essi, anche i propri ideali politici, per cui nel caso di un comunista, è abbastanza veritiero che esso pur non avendo partecipato in modo diretto all’evoluzione del comunismo locale, ha continuato a conservare i propri convincimenti su quel partito, votando per esso, conservandolo come una vecchia foto, fra i ricordi d’infanzia più cari.
Ma oltre ad essere un uomo dai forti ricordi, l’emigrante sambucese è un cittadino previdente, che valuta con meditata interezza l’importanza del suo voto, ecco la sua scelta per un rientro momentaneo nel paese d’origine per esercitare il proprio diritto-dovere del voto.

Da questi comportamenti episodici, dicevamo prima, risulta in modo inconfutabile la grande maturità politica, l’alto senso morale dei nostri concittadini che per necessità si sono trasferiti all’estero, in gran parte attorno agli anni cinquanta-sessanta. Essi continuano a seguire le vicende cittadine ed a partecipare sia pure in modo indiretto o episodico come in occasione del voto. E un legame nobile quello che lega l’emigrante alla comunità d’origine da cui non sempre è stato ripagato con la stessa generosità, eppure esso continua a sperare oltre ogni lecita ragione che a Sambuca finalmente vi sia una richiesta di lavoro tale da decidere il suo ritorno a casa, a quei cortili, a quelle vecchie e tortuose “vaneddi” da cui è partito e che adesso sono melanconicamente vuote e silenziose.
Questo lavoro vuol essere un omaggio a tutti coloro che sono stati costretti a lasciare le proprie case, i propri affetti ed andare raminghi per il mondo, una semplificazione dei sacrifici e delle umiliazioni che essi in ogni parte del mondo hanno dovuto sopportare; alle piccole e grandi cose che sono stati capaci di realizzare dovunque hanno prestato la loro opera.

L’Autore


T E S T I M O N I A N Z E

CALOGERO CIACCIO

FRANCESCO GULOTTA

PIPPO TRAPANI

GASPARE SACCO

TOTÓ PALMERI

GIUSEPPE SPARACINO

ANNA GRECO

AUDENZIO VACCARO


Poesia sugli emigranti – di S. Maurici


C O R R I S P O N D E N Z E

 

Chicago, 20 gennaio 1925

Chicago, Vito Fiorenza

Chicago, 22 aprile 1945

 

 

 

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CALOGERO CIACCIO

Lavoravo come pastore nelle iante masserie di Sambuca e nei paesi limitrofi, ma ero stanco della fatica giornaliera che dovevo fare, perciò decisi di emigrare e di andare in America. Lì avevo una sorella, Giulia, sposata ad un altro sambucese, per cui mi rivolsi a loro per avere un contratto di lavoro.
Mi inviarono le carte necessarie per imbarcarmi e cosi dopo un lungo e fortunoso viaggio, arrivai nella terra promessa nei primi mesi del 1914.
Trovai subito lavoro nella ferrovia ed iniziai a guadagnare bene: quella era una terra meravigliosa, dove c’erano orari di lavoro precisi e dove ti pagavano le ore che tu lavoravi, se casualmente al fine settimana dimenticavi di ritirare la paga, la direzione ti inviava gentilmente un impiegato per ricordartelo.
Allo scoppio della I Guerra Mondiale, vi furono molti licenziamenti, io fui tra questi, i padroni tenevano presso le loro aziende i giovani esperti e mandavano via tutti gli altri. Proprio in quei giorni a tutti gli emigranti arrivò l’ordine di andarsi a registrare presso gli uffici di leva per essere chiamati ed arruolati nel caso in cui l’esercito americano avesse avuto bisogno.
Mia sorella mi affidò ad un nostro paesano: Michele Caloroso che volutamente diede all’ufficiale il numero di casa sbagliato per cui non poterono essermi notificati gli inviti a presentarmi in caserma. Se fossi stato chiamato a fare il servizio militare con gli americani avrei goduto oggi della pensione americana.
Alla ricerca di un lavoro andai a trovare un altro sambucese, tale Jack Abruzzo, il quale lavorava in una grossa impresa di cemento, egli si impegnò per farmi avere un lavoro nel cementificio e li rimasi per oltre un anno fino a quando mia sorella e suo marito non decisero di trasferirsi a Detroit. Per non separarmi dai miei parenti, decisi anch’io di seguirli nel loro spostamento e in questa nuova città trovai subito da lavorare presso una grande fabbrica dove si costruivano treni, io fui assegnato al reparto di fonderia, alla produzione di acciai speciali. La sera richiesto dal boss per fare lo straordinario ed io accettavo, per cui rispetto ai miei compagni di lavoro guadagnavo il doppio.
In questa fabbrica la quasi totalità delle maestranze era di origine tedesca, quando, l’America entrò in conflitto in difesa della Francia occupata dalla Germania, alcuni operai della fabbrica operarono un sabotaggio: avvelenarono l’acqua potabile nella speranza di bloccare la produzione di materiale bellico che producevamo per l’esercito. Molti di coloro che lavoravano in quella fabbrica si sentirono male, qualcuno morì per cui le maestranze scesero in sciopero chiedendo provvedimenti. Le autorità si mossero con sollecitudine ed in breve gli operai tedeschi della zona furono avviati ai campi di concentramento.
Nel frattempo era stato costretto ad affrontare e risolvere un grave problema che assillava la quasi totalità degli emigrati italiani: come scrivere una lettera alla famiglia. Io non ero stato a scuola, mio padre aveva deciso per me che io ero più utile alla famiglia se andavo a lavorare e così ero cresciuto senza aver imparato a leggere ed a scrivere. Fin tanto che ero rimasto a Sambuca, non avevo molto sofferto per tale carenza, ma adesso in America le cose erano completamente cambiate, se volevo comunicare qualcosa alla famiglia in Italia dovevo rivolgermi a qualche compagno di lavoro che non sempre si mostrava disponibile, qualcuno a volte si faceva perfino pagare e poi mi irritava che le notizie che mi arrivavano da Sambuca dovevano essere conosciute da tutti per colpa di un ciarliero lettore. Decisi pertanto che dovevo imparare a leggere e scrivere. Trovai un amico calabrese che si mostrò intenzionato ad aiutarmi, comprai il necessario e la sera rinunciando ad andare in giro, sotto la guida di quel mio amico lentamente imparai a comporre, che grande emozione provo ancora oggi nel riandare con la mente a quei momenti, quando con mano tremante scrivevo l’intestazione della prima lettera: Sambuca Zabut e poi tutto il resto!
Guadagnavo molto, stavo bene, purtroppo nel ’19 accadde qualcosa che mi convinse ad abbandonare definitivamente l’America per far ritorno a Sambuca. Nel mio lavoro di straordinario ero impegnato con un operaio di colore a svuotare dei vagoni di carbone in un grosso recipiente da dove un congegno automatico provvedeva a trasportarlo fin alla bocca del forno. Una sera di dicembre, con un freddo davvero polare, il mio compagno di turno pensò bene di rimanere a casa ed io pur di non bloccare il lavoro del reparto lavorai per due.
Purtroppo uno di quei vagoni era ghiacciato per cui dopo averlo ribaltato, il carbone rimase attaccato alle pareti metalliche del carro, cercai di farlo scivolare con una pala e nel fare questo tentativo mi avventurai sul fondo del carro, improvvisamente il carbone si staccò di colpo dalle lamiere travolgendomi nella sua discesa. Finii nella tra-mogia semisommerso da quintali e quintali di carbone, con la sola testa miracolosamente scoperta. Chiamai a lungo aiuto, ma il rumore delle macchine in funzione copriva le mie richieste.
Soltanto all’alba qualcuno si accorse dell’incidente e venne a liberarmi dalle masse di carbone che mi avevano seppellito.
In quelle lunghe ore di paura, avevo promesso alla Madonna dell’Udienza che se mi fossi salvato sarei ritornato a Sambuca. Così feci, contro i consigli dei miei parenti, ritornai in paese dove ho vissuto senza altri rimpianti per l’America che tanto frettolosamente avevo lasciato.

TORNA SU

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FRANCESCO GULOTTA

Nel 1928, in pieno fascismo, ero in società con un mio coetaneo: Leonardo Sacco.
A Sambuca eravamo tenuti in grande considerazione per la nostra bravura nell’arte muratoria tant’è che molti lavori edili del comune venivano assegnati alla nostra ditta. Ricordo che in quell’anno avevamo diversi appalti di opere pubbliche per cui questo nostro progredire suscitava la gelosia e l’invidia di molti muratori sambucesi (molti dei quali iscritti al locale fascio proprio nella speranza di potere lavorare), per metterci in difficoltà presso le autorità, qualche invidioso, o qualche fascista locale, prese ad inviare rapporti segreti alla Prefettura di Agrigento inventando alcune accuse sul mio conto e su quello di Sacco, accuse false ovviamente, ma che raggiunsero il loro scopo. D’altra parte quei delatori ebbero la strada appianata dal fatto che mio fratello Toni era stato da tempo inviato al confino perché sospettato di avere fatto politica attiva nel PCI, che in quel periodo ricordo, era stato dichiarato illegale.

Da Agrigento inviarono al comune di Sambuca una lettera con la quale la Prefettura richiedeva per i sunnominati Gullotta Francesco e Leonardo Sacco un documento di riconoscimento con le impronte digitali impresse. Questa richiesta significava l’inizio di una procedura che ci avrebbe portato in poco tempo alla prigione, o all’esilio.
Alla richiesta delle impronte digitali, io ed il mio amico Sacco siamo andati a parlare con il podestà che allora era don Calcedonio Ciaccio. Lui ci rassicurò che nessuno avrebbe potuto agire contro di noi visto che prove non ne esistevano, ma ci siamo accorti che lo diceva per pura formalità, si vedeva benissimo la sua insicurezza a trattare l’argomento. Fortuna per noi che all’ufficio competente c’era in servizio Giuseppe Bondi che in quell’occasione si mostrò molto comprensivo nei nostri riguardi, infatti fece in modo che le impronte digitali risultassero imprecise allo scopo di far perdere tempo alle autorità e nello stesso tempo dare a noi la possibilità di trovarci una via di salvezza tramite l’emigrazione clandestina.
Dopo una settimana arrivò la nuova richiesta di impronte digitali ed anche questa volta il Bondì li riprodusse in modo incompleto adducendo che gli individui in questione lavorando con la calce avevano le dita delle mani ormai deformi. Da Agrigento questa volta risposero seccatissimi, scrissero che se a Sambuca non c’era personale specializzato per fare delle impronte digitali a due muratori, allora era bene far venire i due in questione in città dove avrebbero provveduto a fare delle impronte valide.

Nel frattempo noi attraverso canali segreti eravamo riusciti a trovare un contatto a Palermo che per la somma allora piuttosto consistente di 120.000 lire avrebbero organizzato il nostro espatrio verso l’America dove sia io che il Sacco avevamo parenti ed amici che ci avrebbero aiutato per agevolare il nostro inserimento in quell’ambiente.
Io e Sacco lasciammo sul posto come nostri procuratori per riscuotere le nostre spettanze dal comune: Pippinu Mulè e Michele Guzzardo, nostri rispettivi padrini e messi in tasca tutti i nostri risparmi siamo partiti da Sambuca la notte del 13 agosto 1928 diretti a Palermo dove ci siamo incontrati con il nostro contatto che ci ha fatto proseguire subito per Napoli. In questa città siamo rimasti circa una settimana ospiti di persone interessate e riservate dato che non potevamo ormai lasciare tracce del nostro passaggio alla polizia. Infine il nostro contatto ci ha avviato verso il porto di Genova dove siamo stati alloggiati da un marinaio del posto che aveva il compito di farci salire sopra una nave diretta in America. A Genova siamo rimasti qualche giorno fra alterne speranze, frequentando le misere bettole della zona del porto tra il puzzo del vino a basso costo e le liti furibonde dei marinai ubriachi ed intanto speravamo che arrivasse il momento di partire. Finalmente il marinaio che ci aveva ospitato venne ad avvertirci che l’indomani saremmo partiti con una nave che faceva scalo a Genova che si chiamava: George Orson.
A mezzogiorno, come eravamo rimasti, io e Sacco ci siamo avvicinati alla nave che già si preparava a partire, confusi con altri operai che lavoravano a riparare qualche guasto, quel marinaio ci fece salire a bordo, mentre Leonardo fu subito nascosto nel deposito del carbone io fui scoperto e per poco non rimasi a terra. Per fortuna tutto si è risolto per il meglio e raggiunsi il mio amico nel suo nascondiglio. Il deposito di carbone era pieno e noi due nascosti li dentro quasi toccavamo il soffitto, rimanemmo zitti e silenziosi in quella posizione per molte ore senza cibo e senz’acqua, nè venne a trovarci il marinaio che era stato pagato per darci una mano in caso di necessità. Ad un certo punto mi resi conto che Sacco stava male, sudava abbontantemente, ma il suo corpo era freddo e privo di forze, se rimaneva ancora in quel posto sarebbe certamente morto. Sorreggendolo alla meglio mi spostai nel deposito verso le caldaie. Il fuochista di turno che era veneziano si sorprese molto nel vederci arrivare, ma non diede l’allarme, anzi, sentite le nostre ragioni ebbe compassione per noi due e ci procurò dell’acqua.
La nave fece scalo a Biserta, con la complicità delle tenebre siamo scesi dalla nave e grazie alle indicazioni di un marinaio siamo arrivati alla casa di lu Zu Paulu, un siciliano che in quel luogo possedeva un locale che era poco più di una capanna, ma che alla bisogna serviva da emporio, ristorante, taverna, ecc.
Ritrovammo il nostro contatto e con lui abbiamo deciso che io e Sacco da Biserta, attraverso l’Algeria in treno, saremmo andati ad aspettare la nave ad Osman. In quel porto saremmo nuovamente risaliti sulla George Orson evitando in quel modo di venire scoperti dai controlli di dogana solitamente accurati in quella zona, dato che la nave avrebbe fatto proprio ad Osman uno scalo tecnico prima di affrontare l’oceano. Dopo varie peripezie quella notte siamo rimasti a dormire nel locale del siciliano e l’indomani mattina presto, egli stesso ci accompagnò alla stazione e fattoci salire sul treno ci augurò una buona fortuna.
Ai confini tra la Libia e l’Algeria i doganieri ci hanno chiesto i passaporti che non avevamo. Gli abbiamo raccontato alcune scuse e ci hanno fatto passare. In quel treno abbiamo incontrato un nostro connazionale nativo di Castelvetrano che si mostrò subito molto curioso, oltre l’illecito, tanto che lo sospettammo subito fosse una spia del governo italiano. Arrivati ad Algeri con uno stratagemma ci siamo liberati del losco individuo facendo perdere le nostre tracce nella gran confusione che regnava in quella stazione ferroviaria. Fuori, per le strade della città; siamo entrati in un bordello. Li dentro parlavano tutti il francese o l’arabo, lingue che nessuno di noi conosceva perciò salito sopra una sedia chiesi ad alta voce se li dentro c’era qualcuno che parlava italiano. Si presentarono due individui che dissero di essere bresciani, spiegammo loro la nostra situazione e li pregammo di procurarci una macchina che potesse condurci ad Osman. Questi nostri connazionali si mostrarono molto comprensivi, contattarono un tassista e concordarono la cifra per condurci in quella città: mille lire, esattamente la mettà di quanto ce ne aveva chiesto un altro autista poco prima, per maggiore precauzione i due bresciani fecero salire sulla macchina assieme a noi un loro uomo di fiducia per sconsigliare chiunque dal tentare brutte sorprese a noi due.
Da Algeri fino al porto di Osman abbiamo impiegato circa 12 ore di macchina attraverso territori desertici e montagne selvagge con la paura che qualche predone ci fermasse per rapinarci, e poi quel caldo che ci faceva impazzire.
Arrivati a destinazione ci siamo recati al porto e lì siamo rimasti molto tempo in attesa della nave, scrutando l’orizzonte in attesa di scorgere un filo di fumo che rivelasse la presenza del bastimento in arrivo. Finalmente la scorgemmo e ne seguimmo l’avvicinarsi alla banchina quanto improvvisamente notammo disperati che la George Orson, proprio quando era vicinissima al porto, aveva invertito la rotta scomparendo presto all’orizzonte. Abbiamo saputo più tardi che la causa di quel brusco cambiamento di programma era stato uno sciopero dei portuali che si rifiutavano di cricare il carbone per cui il comandante aveva deciso di dirigersi altrove. Con la nave che si allontavana finivano pure le nostre speranze di trovare un imbarco per l’America.
Mentre giravamo per la città, siamo stati fermati da due poliziotti locali, poichè eravamo sprovvisti di documenti di riconoscimento siamo stati portati negli uffici del consolato italiano locale che constatata la nostra posizione di clandestini ci accompagnarono ad un battello diretto a Marsiglia da dove funzionari governativi ci avrebbero preso in consegna per farci rimpatriare. Anche in questo frangente la sorte ci diede una mano, il nostromo del battello si mostrò solidale con noi per cui  quando  la nave attraccò al molo della città francese, mentre i funzionari italiani sbrigavano le pratiche della nostra consegna con il comandante, egli ci fece scendere e presto ci confondemmo tra la folla. Da Marsiglia in treno ci siamo spostati a Parigi e quì fummo nuovamente arrestati dalla polizia, per nostra fortuna costoro si lasciarono corrompere, gli demmo del denaro e loro ci fecero salire sopra un treno diretto in una grande città marittima del Belgio, forse gli stessi poliziotti parlarono con il capotreno, in ogni caso attraversammo la frontiera belga senza difficoltà. Arrivati in questa città di mare eravamo ormai privi di soldi, nella zona c’era una ditta italiana, una grande fabbrica che costruiva automobili, abbiamo chiesto ed ottenuto del lavoro così da fare fronte ai bisogni principali. Nel frattempo avevamo inviato un telegramma ai nostri parenti in America chiedendo loro del denaro.
Terminato il lavoro in cantiere, ogni sera io e Sacco frequentavamo la zona del porto, sperando di trovare al più presto un passaggio in una delle tante navi che attraccavano sul posto. Molte taverne del luogo erano frequentate da fuoriusciti politici e con loro familiarizzavamo subito, in questi ambienti abbiamo conosciuto un marinaio genovese che si rivelò determinante per la nostra sorte. Quest’uomo infatti conosceva un marinaio tedesco che in quei giorni si trovava nel porto con la sua nave, il genovese contattò il suo amico e gli chiese di prenderci a bordo, pattuendo un compenso di 200 dollari. Tutto andava per il meglio, proprio in quei giorni dall‘America avevamo ricevuto 400 dollari per cui alla data fissata e favoriti dalle tenebre, ci arrampicammo sulla nave immersa nel silenzio e nel sonno ed il tedesco ci nascose in un piccolo spazio ricavato sotto le caldaie.
Per ben 22 giorni, tanti furono i giorni della traversata a causa della fitta nebbia che gravava sull’Oceano ritardandone la marcia, siamo rimasti chiusi li dentro, in silenzio per il timore di essere scoperti, in una situazione igienica incredibile. Dal giorno della nostra fuga da Sambuca erano passati in totale 93 giorni fino al momento dell’approdo a Boston, dove in modo avventuroso abbiamo passato indenni la dogana.
Arrivati finalmente dai nostri parenti ci siamo dati da fare per trovare lavoro e per integrarci pian piano in quell’ambiente tanto diverso dal nostro. Qualche tempo dopo consigliato da un legale mi recai a Cuba da dove mi è stato abbastanza semplice ottenere la quota d’ingresso legale in America, e finalmente non ebbi più timore a nascondere la mia identità. Ero ormai un americano a tutti gli effetti, ma il mio cuore era rimasto a Sambuca dove avevo lasciato la fidanzata, una brava ragazza che dopo tanti anni ancora mi aspettava. Nel ’40 chiesi ed ottenni il passaporto italiano e con esso ritornai in Italia per sposarmi. Sapendo che ancora qualcuno non aveva dimenticato, subito dopo la cerimonia mi misi in viaggio per rientrare in America, qualche ora dopo la mia partenza a casa mia bussavano i carabinieri con l’intenzione di arrestarmi.
Quando scoppiò la seconda guerra mondiale e l’America decise d’intervenire, io fui chiamato nell’esercito americano, non partecipai ad azioni belliche eppure quel servizio mi portò tanti vantaggi. In questa grande terra ho ricomposto la mia famiglia, ho lavorato molto, tanto da farmi una posizione agiata, ma infine i mali ed i ricordi d’infanzia mi hanno convinto a ritornare a Sambuca per rimanervi definitivamente.

TORNA SU

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PIPPO TRAPANI

La situazione a Sambuca nel 1950 era davvero disperata, una grave mancanza di lavoro faceva si che contadini ed artigiani locali non riuscivano a trovare abbastanza lavoro per mantenere in modo dignitoso le proprie famiglie. Per essere più esplicito debbo dire che in tutto l’anno personalmente riuscivo a lavorare si e no 4 mesi (quelli estivi) e poi per il resto non avevo altro da fare, nessuno che avesse più bisogno della mia opera. Capitava che per una riparazione o per istallare lo sportello ad un pozzo io stesso andassi a sollecitare il cliente perchè mi desse il via al lavoro, ma il padrone non era mai pronto.
Una giornata di lavoro in tutto che veniva rinviata di mesi e questo perché il proprietario aveva altri impegni, o perché voleva prendere tempo ed io aspettavo pazientemente che lui si decidesse, perché quel giorno di lavoro mi avrebbe permesso di pagare untò di conti.
Era un lavoro disumano quello dei muratori, la mattina prestissimo ancora col buio dovevamo essere al lavoro, terminavamo la sera sul tardi, sempre con il buio, stanchi per la fatica e con i padroni che non erano mai soddisfatti del nostro operato, giornalmente essi commettevano nei nostri riguardi abusi d’ogni genere e noi sempre lì a chinare la testa, a dire “Comu voli vossia”  “è giustu” pur di non perdere quel cliente che in futuro avrebbe potuto farci lavorare ancora un giorno. La paga era una vera miseria, eppure dovevamo contentar-ci. Spesso durante l’inverno non avevamo 10 lire per comprarci un po’ di companatico, o un mazzo di cavoli per la minestra, questa era la situazione a Sambuca negli anni cinquanta.
Era una situazione davvero insostenibile, non potevo lasciare la mia famiglia nella miseria e nelle privazioni, perciò decisi di emigrare. In quei giorni a Sambuca partivano in tanti, specialmente per il Venezuela, ma anche per altri posti lontani dalla Sicilia di cui spesso non sapevamo pronunciare i luoghi. In Venezuela qualche anno prima era emigrato un nostro concittadino: Gaspare “Fammallustru”‘ un muratore che s’impegnava ad inviare, dietro pagamento di un compenso anticipato di 70.000 lire, l’atto di richiamo necessario all’espatrio a chi di noi voleva recarsi in Venezuela per lavorare. Ricordo che quel denaro lo dovevamo consegnare alla moglie che viveva a Sambuca, una volta avuto i soldi, la donna scriveva al marito e questi provvedeva ad inviare il documento al destinatario.
Era in effetti una vera e propria speculazione, perchè quel documento al nostro compaesano non costava più 10.000 lire.
Il biglietto di viaggio, il necessario per emigrare costava all’incirca 400.000 e nessuno di noi a Sambuca (almeno di quelli che emigra-vano) aveva mai visto insieme tanti soldi. Fui costretto pertanto ad impegnare la casa che possedevo con la locale Cassa Rurale.
Ottenuto il denaro preparai l’occorrente per la partenza e finalmente il 28/5/1950 partii per il Venezuela
Da Sambuca mi recai a Napoli dove mi imbarcai sopra una grossa nave della flotta Lauro diretta in Venezuela.
Quando sbarcai a Caracas, ebbi l’impressione di essere arrivato in paradiso, Caracas era una città moderna, con strada diritte ed ampie, ma tanta euforia fui costretto a metterla presto da parte. Il lavoro anche in Venezuela era molto scarso e per oltre un mese vagai da un cantiere edile ad un altro alla ricerca di un lavoro, ovunque era la stessa storia: “Siamo al completo, … non assumiamo personale” Intanto i pochi soldi che avevo portato con me dall’Italia erano finiti, per mangiare dovetti farmi prestare i soldi da alcuni paesani e vollero pagati interessi più alti di quelli praticati dalla banca sul denaro pre-stato.
Per trovare un lavoro fui costretto a spostarmi verso l’interno del paese, in zone impervie e desertiche ove esistevano delle popolazioni semiselvatiche ed ostili agli italiani, che per la loro bravura erano spesso preferiti ai lavoratori locali.
Dopo due anni di quella vita solitaria e piena di pericoli riuscii a guadagnare abbastanza per pagare tutti i debiti oltre ad acquistare qualcosa, decisi pertanto di ritornare a casa, non volevo vivere più lontano dalla mia famiglia. Arrivato a Sambuca dovetti costatare purtroppo che le cose non erano cambiate affatto, anzi, mi ritrovai ancora più disadattato visto che i clienti che avevo nel frattempo si erano cercati altri muratori per eseguire i loro lavori.
Nel 1955 ritornai nuovamente in Venezuela e questa volta trovai lavoro piuttosto agevolmente. Al governo era allora Betangul che aveva molta simpatia per gli italiani, e ovunque andavamo eravamo trattati con molto rispetto e tutti ci davano lavoro visto che noi emigranti facevamo pagare gli intonaci a 1,50 Bolivari contro l’1, 75 degli operai locali. Betangul aveva aiutato molto gli italiani perciò nelle
elezioni del ’59 noi tutti lo sorregemmo, ma questo irrito ancora di più la popolazione locale che finì per rivoltarsi contro 1l governo. Una mattina un giornale locale usci con titoli molto grossi: “Lo spagnolo in Spagna e l’italiano al cimitero” Si, non volevano più averci tra i piedi. Più tardi improvvisamente si misero a suonare tutte le campane delle chiese e le sirene dei cantieri mentre per le strade bande di facinorosi venezuelani armati di machete e di pistole presero a bru-clare macchine, a distruggere negozi, mostrandosi particolarmente attivi nel dare la caccia agli italiani; era la rivoluzione.
Furono giorni di terrore per tutti noi che stavamo nascosti, avendo particolare cura di non mostrarci in pubblico. Molti di noi furono arrestati e malmenati, qualcuno più sfortunato ci rimise la vita, intanto le nostri mogli a Sambuca avevano messo la Madonna dell’Udienza esposta, perchè facesse il miracolo di salvare le nostre vite dalla furia della rivoluzione.
Io in quell’occazione rischia davvero la vita, avevo lavorato per un farmacista che mi doveva ancora pagare, un giorno raccolto 1l coraggio mi recai da lui per ottenere quanto dovuto. Per la strada fui riconosciuto da alcuni rivoltosi ed inseguito da quei ribaldi che gridavano: “A morte l’italiano“‘. Se mi avessero preso, con quei machete certo mi avrebbero fatto a pezzi.
Fortuna per me che riuscii a raggiungere la casa del farmacista e gli chiesi d’aiutarmi. Lui affrontò quei rivoltosi dicendo che io lavoravo per lui, che mi ero sempre comportato bene. Riusci a convincerli a lasciarmi in pace, ma intanto impaurito da quella esperienza, decisi in poco tempo di “coglimi li stigli” e ritornare in Italia dove rimasi per sempre.
Il Venezuela è stato per noi emigranti contrastato e pericoloso, alcuni di noi, i più spregiudicati e privi di scrupoli si sono arricchiti, gli altri abbiamo condotto una vita quasi sempre rischiosa ed incerta che ci ha lasciato in una situazione economica vicina a quella di partenza.

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GASPARE SACCO

Parlare d’emigrazione non è facile se non si è vissuti da emigranti per molti anni. Per un bracciante emigrazione ha voluto dire partire come un soldato che va alla guerra, verso destinazione ignota. Entrambi hanno dubbi sul futuro, ma poichè le condizioni economiche dell’Italia negli anni cinquanta costringevano larghi strati della popolazione a lunghi periodi di disoccupazione, ecco che nonostante tutto, molti di noi sono dovuti partire.
Nel 1945, a guerra finita molti lavoratori sambucesi erano tornati dal fronte o dalla prigionia, erano senza soldi e senza la possibilità di lavorare per soddisfare le proprie esigenze. Costoro hanno iniziato una dura lotta contro i padroni e gli agrari, occupando le terre incolte o mal coltivate e scioperando spesso per sollecitare i proprietari ad iniziare le migliorie ai terreni che per loro volevano dire lavoro.
A Sambuca fu costituita la coop. “L’Unità” con molti soci tra piccoli proprietari, contadini e braccianti agricoli. Il movimento contadino locale in quegli anni ha occupato diversi feudi incolti tra i quali ricordo Vanera e Misilbesi, ma la reazione dei proprietari terrieri ed il governo democristiano fu spietata tanto che dopo appena pochi anni gli affittuari hanno dovuto abbandonare le terre che avevano iniziato a bonificare. Solo Vanera continuò ancora per qualche tempo ad essere gestito in cooperativa.
Il governo e la D.C. sotto le spinte conservatrici nella formulazione della legge di Riforma Agraria hanno respinto il limite proposto dal PCI, di porre un limite di 100 ettari alla proprietà terriera e questo aggravò di fatto la crisi del mercato del lavoro costringendo innumerevoli lavoratori a preparare i passaporti per emigrare nel mondo alla ricerca di un lavoro per sopravvivere.
In quegli anni De Gasperi lanciò lo slogan: “Imparate una lingua ed emigrate“, ma quello che per lui era un facile consiglio, per molti di noi al contrario esso significò l’inizio di un dramma. Per emigrare occorreva un contratto di lavoro, una carta di Residence ed un Permit. Per ottenere tali documenti molti di noi ci siamo rivolti a parenti e speculatori che già erano emigrati e che per il loro interessamento hanno preteso compensi davvero esosi, e chi non aveva i soldi necessari firmava le cambiali. Io per il mio contratto di lavoro pagai circa 200.000 lire.
Ricevuto il contratto di lavoro non rimaneva altro che preparare la valigia, salutare parenti ed amici e partire verso una destinazione che sembrava ai confini del mondo. Ancora ricordo quel treno che usciva dalla stazione di Palermo, stracolmo di gente, le emozioni che allora ha suscitato in me che andavo incontro all’avventura … Un viaggio che è durato tre giorni e due notti.
Ho ancora ben vivi i ricordi dei viaggiatori (quasi tutti emigranti) stipati nei vagoni come animali entro i carri bestiame, stretti gli uni agli altri in un groviglio inestricabile con i pacchi e le valigie, con poca aria per respirare e con le toilettes bloccate perchè qualcuno di noi più furbo vi si era chiuso dentro.
Arrivato a Calais, lasciai il treno per imbarcarmi sopra una nave che mi avrebbe sbarcato nel porto di Folkeston. Questi sono stati i peggiori momenti di tutto il viaggio, sulla nave infatti tutti i viaggiatori diretti in Inghilterra per lavoro venivano sottoposti ad accurata visita medica, se per caso fossi risultato inidoneo al lavoro pesante allora sarei stato brutalmente rimandato indietro. Tanti sacrifici, tutte le spese sostenute fino a quel momento sarebbero state inutili, le restanti illusioni sarebbero andate perse per sempre. Ma fortunatamente per me le cose andarono bene ed ebbi il tanto sospirato permesso d’entrata in Inghilterra che era allora la mia terra promessa.
Alla stazione Victoria di Londra scesi dal treno e mi inoltrai anch’io nel fiume umano che percorreva ininterrottamente i marciapiedi della stazione anche se non sapevo dove andare e non conoscevo una sola parola d’inglese. Con il contratto di lavoro in mano mi accostai ad un box di giornali e gesticolando cercai di far capire all’addetto dove dovevo recarmi. Lui molto gentile, abbandonò il posto di lavoro e mi accompagno prima a fare il biglietto e poi al treno locale che mi avrebbe condotto nella località dove ero diretto per lavorare, avendo cura di raccomandarmi al controllore perche provvedesse ad avvisarmi al momento in cui fossi arrivato sul luogo giusto.
Nei primi mesi della mia permanenza in Inghilterra ebbi costantemente l’impressione che ogni cosa in quella terra fosse strana: il cibo, le usanze, il lavoro, ma poiché pagavano bene ogni settimana ed il posto di lavoro era sicuro, mi impegnavo con buona volontà nella mia attività. D’altra parte per contratto per quattro anni potevo cambiare fattoria ma non specializzazione.
Gli svantaggi dell’emigrazione sono stati molti. Si partiva malvolentieri dal paese, ma con la rassegnazione e la consapevolezza che non potevamo fare altrimenti, era il prezzo che pagavamo per lo stato di arretratezza in cui era tenuto volutamente il Meridione da una classe politica inetta, espressione del peggior conservatorismo agrario e fondiario, e per colpa di quei politici noi siamo partiti dai nostri luoghi di origine in cerca di un lavoro che ci permettesse di risolvere il problema economico e familiare. Per questo abbiamo pagato un prezzo molto alto in energie ed in vite umane.
Tutto quanto noi emigrati abbiamo realizzato in terra straniera come: strade, ferrovie, industrie, città, migliorando il progresso civile ed economico della nazioni che ci ospitavano, poteva essere realizzato nel Meridione. Un immenso patrimonio di energie non è stato utilizzato ed è andato a beneficio di altri, uno spreco enorme di risorse umane che va addebbitato alla DC che, dei governi di allora, era la guida politica.
L’emigrazione non è stata completamente negativa, non possono essere negati alcuni vantaggi. Superati infatti i tempi d’adatta-mento, imparata la lingua, ci siamo mossi per conoscere i locali, i loro usi, le loro libertà. Tutti gli italiani presenti nella zona (pur provenendo da regioni italiane diverse) ci siamo sforzati di aiutarci l’un l’altro. La polizia ci chiamava la Piccola Italia e se aveva problemi con i connazionali appena arrivati, allora si rivolgeva a noi per essere aiutata a risolverli.
Lavorando assieme agli inglesi abbiamo imparato la loro lingua, la specializzazione nel lavoro, la cultura, alcuni di loro nei nostri confronti si sono mostrati cortesi e gentili, altri invece erano gelosi. Gradualmente abbiamo cominciato a capire il sistema sociale inglese che è tutt’ora il migliore del mondo. Problemi come ad esempio comprarsi una casa sono stati facilmente risolti, grazie ai diritti che godevamo potevamo chiedere un mutuo senza alcuna difficoltà. La cittadina di Worthing ospita oggi circa 1.200 italiani, grazie ad un comitato organizzatore locale abbiamo funzionante un dopo-scuola dove i nostri figli possono studiare l’italiano. Ancora tra mille difficoltà e sacrifici da parte di noi tutti, oggi andiamo fieri di questa scuola dove diversi giovani si sono messi in mostra vincendo borse di studio messe in palio dalla COASIT di Londra. La scuola ci è stata utile anche per rinsaldare i legami con l’Italia, per conoscere la nostra lingua e la cul-tura. Per questo abbiamo lottato ed ottenuto un corso di scuola media per lavoratori a cui molti di noi hanno partecipato. Inoltre specialmente i sambucesi presenti in loco, hanno rinnovato le proprie radici politiche fondando una sezione comunista ed il sindacato CGIL per meglio far valere i nostri diritti nei confronti del consolato di Londra che troppo spesso dimentica le nostre esigenze, i nostri diritti.
Dalla mia esperienza d’emigrante, ho imparato a mia spese che occorre specializzarsi in diversi settori, essere polivalenti è un mezzo per sopravvivere. Nella Sambuca del dopoguerra non era facile rompere 1l cerchio delle tradizioni, del bisogni che ci vedevano legati al passato. Un figlio di braccianti, o di contadini poteva solamente svolgere il mestiere del padre, di scuole neanche a parlarne. Studiavano solamente i figli dei signori anche se poi risultavano dei cattivi professionisti.
Quì in Inghilterra superati i primi quattro anni che ci hanno visti legati per contratto alla terra, coloro che abbiamo mostrato capacità ed impegno abbiamo scelto il lavoro che più ci piaceva, facendo anche carriera senza la deprecabile raccomandazione cosi abituale oggi in Italia.
I figli degli emigrati oggi sono pienamente integrati nel tessuto sociale inglese, chi di loro ha avuto capacità e talento ha preso un diploma o una laurea, ed anche noi della prima ondata col tempo ci siamo inseriti bene, apprezzati per quello che riusciamo a fare.
A Sambuca ritorno ormai tutte le estati, ma non penso di trasferirmici definitivamente, che futuro potrei darei ai miei figli? E poi, quì a Worthing, sono un cittadino che conta, per quello che valgo.

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TOTÓ PALMERI

Sambuca negli anni ’60 era una comunità coinvolta in una grave crisi economica, personalmente a me non offriva alcuna possibilità di lavoro che non fosse altro che seguire le tradizione di famiglia ed andare in campagna, o nelle masserie per eseguire lavori pesantissimi, quasi senza paga. Ricordo quell’anno che ho avuto la fortuna di lavorare con dei trattoristi, portavo la nafta dal paese fino al punto di lavoro, in territorio di Caltabellotta. Giorno e notte al lavoro, la notte si dormiva sopra una zolla e tutto questo per 100 lire l’ora, una fortuna per quei tempi.
Era una vita inumana e bestiale e tutti fra noi giovani speravamo di poter sfuggire ad un simile inferno. Allora si parlava d’emigrazione, tutti espatriavano in ogni parte del mondo, ovunque vi fosse la possibilità di lavorare, così pure io decisi di andare via da Sambuca, di tentare questa strada.
Ero in ottimi rapporti d’amicizia con l’allora parroco Alfonso Di Giovanna che in quegli anni era stato trasferito in una parrocchia di Agrigento, così un fine settimana che egli era tornato in paese, lo andai a trovare e gli espressi il mio desiderio d’emigrare. Lui s’interessò ad Agrigento per farmi avere il passaporto e contemporaneamente presentò a mio nome alla Camera del Lavoro, la domanda d’emigrazione in Germania.
Nell’agosto del 1961 tramite l’organizzazione sindacale mi arrivò la chiamata per espatriare. L’ufficio di smistamento per l’emigrazione era allora a Napoli ed in quel luogo tutti i lavoratori italiani aspiranti ad un contratto di lavoro sostavano per la fatidica visita medica. Si andava davanti ad una commissione medica costituita da medici tedeschi appositamente inviati dal governo di quel paese. Questi uomini eseguivano il loro lavoro con molto scrupolo scartando non solo quelli che avevano carenze fisiche, ma anche gli anziani; coloro che avevano un’età superiore ai 35-40 anni, potendo contare su immense schiere di lavoratori bisognosi di lavoro. Chi non superava la visita medica veniva rinviato a casa, il costo del biglietto era anche in quel caso a carico della Germania, e meno male, perchè fra gli aspiranti ad un posto di lavoro ve n’erano alcuni che non avrebbero potuto pagarsi il biglietto per ritornare a casa.
Dopo aver superato lo spauracchio della visita mèdica alcuni funzionari ci chiamavano per farci firmare il contratto di lavoro scritto in duplice lingua, sul foglio erano specificati la paga settimanale e le mansioni a cui avremmo dovuto impegnarci, ma non vi era scritto la località dove saremmo stati inviati che sapevamo essere la Germania e non altro. Insomma si partiva per destinazione ignota.
Alla stazione di Napoli ci hanno fatto salire su alcuni vecchi carri che sembravano veri e propri carri bestiame e siamo partiti verso la grande avventura, incontro al nostro destino. Andavamo in Germania senza che alcuno di noi sapesse pronunciare una sola parola di tedesco, un po eroi, un pò disperati.
Durante il viaggio non furono pochi quelli che fra noi piansero sommessamente rimpiangendo il poverissimo pasto che abitualmente consumavano con la propria famiglia.
Molti di noi lo ripeto sul treno non avevano soldi in tasca qualcuno di noi aveva portato con se qualcosa da mangiare da casa, gli altri al contrario sono rimasti digiuni per oltre 12 ore, infatti solo appena arrivati alla stazione di Verona, i responsabili del viaggio si sono decisi a passarci un sacchetto-viveri.
Il treno è transitato sul Brennero diretto a Monaco di Baviera dove finalmente ci hanno fatto scendere per condurci nel più vicino posto di ristorazione. E li dentro tutti noi ci siamo convinti che finalmente eravamo arrivati alla nostra meta.
Grande fu la delusione di noi tutti, lo scoramento, quando dopo esserci ripresi dalla stanchezza ci hanno radunati e divisi in plotoni, indirizzandoci verso diverse destinazioni a secondo delle loro richieste interne di manovalanza. Man mano che i gruppi s’avviavano verso le loro destinazioni, noi che rimanevamo fermi sul marciapiedi ad aspettare il nostro treno, ci sentivamo frustrati e più deboli. Io con altri 30 compagni di viaggio fui istradato verso Hannover. Eravamo arrivati in Germania e dicevano che da Monaco ci dovevamo spostare. Ancora altre dodici ore di treno, e tutti noi pensavamo che saremmo arrivati in capo al mondo.
Eravamo partiti giorno 8 settembre da casa e il giorno 11 eravamo ancora in viaggio, il nostro cammino della speranza sembrava non volesse avere mai termine e poi il paesaggio era cambiato. Adesso ci muovevamo in una zona boscosa con alberi d’alto fusto che aumentavano in noi la paura. Più di una volta io ebbi a chiedere all’interprete: “Ma dove stiamo andando?” e lui continuava a rispondermi che ormai eravamo arrivati, ma intanto eravamo ancora in viaggio. Lasciato il treno ora avanzavamo in quella zona boscosa a bordo di un pullman, e finalmente alla mezzanotte dell’11 settembre abbiamo messo piede a terra, eravamo arrivati sul posto di lavoro. Ci siamo sistemati subito in un albergo che la direzione della fabbrica aveva affittato per noi.
L’indomani mattina ci vennero a prelevare alcuni dirigenti della fabbrica, loro presero a parlarci nella loro lingua e noi a chinare la testa in un gesto di buona volontà, ma chi capiva una sola parola di quello che stavano dicendoci?
A gesti ci hanno fatto salire sopra un autobus e siamo andati sul posto di lavoro. Arrivati in fabbrica ci si è parato di fronte uno spettacolo stupefacente e pauroso, in quel posto si producevano prodotti metalmeccanici, i capannoni occupavano l’area di un grosso paese del Sud Italia; ovunque operai intenti a lavorare, a costruire pontoni ecc. ecc.
Entrando nei capannoni molti di noi ebbero l’impulso di scappare, ovunque macchine al lavoro ed operai in movimento, e noi poveri contadini che nei nostri paesi d’origine non avevamo mai visto altro che zappe, zolle di terra ed animali d’allevamento, ci trovammo improvvisamente catapultati in una realtà industriale a quei tempi altamente specializzata. Fummo assegnati ai nostri posti di lavoro, ci vennero anche specificate le nostre mansioni che erano sostanzialmente di aiuto agli specialisti locali. Il mio compagno di lavoro mi chiedeva di prendergli un martello ed io che non capivo me ne stavo davanti a lui a fissarlo, confuso e smarrito nella mia impotenza, ad eseguire il mio lavoro, e lui allora mi indicava il posto dov’era l’attrezzo ed a gesti mi faceva capire che voleva quel martello, io andavo sul posto indicatomi e magari prendevo la prima cosa che mi capitava. Non capivo cosa mi dicessero anche se era palpabile il disprezzo che i locali mostravano nei nostri riguardi.
Dopo una dura giornata di lavoro arrivati a casa ci interrogavamo fra noi e ci rendevamo conto che avevamo tutti gli stessi problemi, eravamo intenzionati ad abbandonare tutto e, ritornarcene a casa, ma i più anziani fra noi ci invitavano a rimanere ancora per qualche giorno, altri ancora non potevano affrontare le spese del viaggio di ritorno, o non avevano il coraggio di ritornare alla realtà del paese con la scarsezza del lavoro e con i debiti che avevano lasciato e che sapevano di non potere pagare. In albergo preparavano i nostri pasti, ma non riuscivamo a mandare giù il cibo tanto era per noi insipido e di poco sapore.
Al fine settimana scendevamo in città per fare acquisti, volevamo degli spaghetti. Più avanti qualche commerciante comprese le nostre esigenze, ordinò grosse quantità di pasta e conserva di pomodoro che misero ben in vista in modo che potessimo indicarla agli addetti. Fortunatamente per noi in quel periodo il mio gruppo fu il primo contingente d’emigrati arrivato sul posto, per cui i locali ancora poco smaliziati si mostravano gentili nei nostri riguardi prestandosi ed aiutandoci nelle nostre esigenze. Più tardi con l’arrivo in massa di migliaia d’emigranti provenienti da paesi come la Spagna, la Grecia ecc., tale rapporto di tolleranza ebbe fine e presero ad osteggiarci in tutti i modi.
Col tempo abbiamo incominciato a parlare la lingua locale ed anche nel lavoro ci siamo fatti valere presto. Dopo appena 4 mesi che mi trovavo sul posto, mi è stato proposto dalla direzione di specializzarmi in saldarura. Frequentai un corso di saldatura all’interno della stessa fabbrica e mi specializzai iniziando a lavorare come operaio qualificato. Migliaia di cittadini italiani, di contadini, impararono un mestiere qualificato specializzandosi in lavori dell’industria.
I rapporti con i locali agli inizi degli anni sessanta erano sopportabili, gli anziani del luogo ricordavano come in guerra noi li avessimo traditi e ce lo rinfacciavano, con i giovani vi era più disponibilità, era facile avere rapporti amichevoli con loro, intrattenersi con le ragazze.
Io ho sposato una ragazza tedesca, con lei ho vissuto anni meravigliosi, ho formato una famiglia con cui vivo felicemente, ma nonostante ciò il mio proposito è quello di rientrare a Sambuca quando le condizioni economiche mi permetteranno di farlo.
Nel posto dove lavoro e vivo mi sono pienamente integrato ed ho fatto carriera, infine sono stato eletto delegato di fabbrica dai lavoratori tedeschi, carica che è per me motivo di grande soddisfazione.
Tanta fiducia da parte di cittadini tedeschi attenua, ma non fa scomparire il rimpianto di vivere lontano dai miei luoghi d’origine, dai miei amici d’infanzia, spero un giorno di ritornare definitivamente.

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GIUSEPPE SPARACINO

Fin da quando avevo 13 anni ho sentito una grandissima sete di giustizia e per essa sin da allora mi sono impegnato a lottare con tutte le mie forze, ma intanto ero costretto a subire molte ingiustizie. Già a quell’età, da tempo costretto ad abbandonare la scuola perchè in famiglia non volevano che io studiassi, mi ero trovato un lavoro come manuale e lavoravo per 400 lire al giorno dall’alba al tramonto, spesso “carriannu chiappi e chiappetti”. Un lavoro inumano e la sera a casa mentre consumavo la cena mi lamentavo con mia madre per tutte le ingiustizie che giornalmente dovevo sopportare, allora lei con la saggezza dei poveri mi consolava dicendomi: “Quannu diventi mastru, poi tu fai lu stessu cu li tò giuvini”. Una verità di quei tempi che io trovavo ingiusta, un futuro che ho sempre considerato infernale e perverso e che nel desiderio di cambiarlo ho iniziato a combatterlo con tutte le mie forze nel tentativo di conquistarmi un mondo più giusto, lontano dalle meschinità di comodo, dall’ipocrisia di quella società
Agli inizi degli anni sessanta ho rifondato la sezione comunista giovanile, iscrivendo oltre 160 giovani che per la prima volta presero a fare politica attiva comunista, inoltre come sindacalista sono stato uno dei promotori instancabili degli scioperi degli edili locali per affermare all’interno della nostra comunità il diritto dell’orario di lavoro di otto ore giornaliere.
A Sambuca per la prima volta i comunisti sambucesi oltre che per la pace, il pane e la democrazia lottavano per una vita più vivibile, più umana e questo permetteva alla nostra piccola comunità di mostrarsi già matura agli occhi delle comunità vicine.
Nel 1967, malgrado la promessa di un posto, per motivi d’orgoglio personali, emigrai definitivamente in Toscana. È stata una partenza dolorosa, lasciavo sambuca, gli affetti più cari, gli amici, i compagni di tante lotte sostenute contro i padroni locali.
Arrivato a Prato, dopo un primo impatto abbastanza difficile con la comunità locale, diventai uno dei protagonisti dell’autunno caldo del ’68 durante le lotte operai nelle fabbriche.
Nel giugno del 1970 i comunisti pratesi, apprezzando le mie qualità politiche, mi inserirono nella lista per le amministrative dove con sorpresa generale venni eletto consigliere assumendo in quella amministrazione compiti assessoriali. Una grande responsabilità se si tiene conto che Prato oltre ad avere circa 200.000 abitanti, è una città ad alta densità industriale i cui ritmi di lavorazione sono all’avanguardia nel mondo.
Non ho dimenticato Sambuca a cui mi legano i ricordi della mia giovinezza, di cui ho memoria di episodi esaltanti, ma anche molto tristi.
Amo questa terra ove ho trovato un lavoro ed una dignità per me nuovi ed importanti, sento fortissimo l’orgoglio di appartenere alla comunità che mi ha accolto con molta generosità. In Toscana le mie radici hanno ripreso a svilupparsi rigogliose e sicure in un terreno fertile ed accogliente. Di questo sono particolarmente grato agli abitanti di Prato, da qui la mia scelta di non fare ritorno a Sambuca.

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ANNA GRECO

Campavamo la nostra vita allevando pecore in un feudo della Gran Montagna, a volte da soli a volte in società con altre persone, ma in ogni caso non riuscivamo a condurre un tenore di vita decente, vi era miseria anche se essa colpiva gran parte della popolazione in modo piuttosto grave. Producevamo buoni formaggi eppure frequentemente non riuscivamo a venderli ai locali, ogni tanto arrivava un grossista da Palermo che se li portava via per pochi spiccioli, e lo dovevamo pure ringraziare perchè altrimenti non avremmo saputo come fare per vendere il frutto del nostro lavoro.
Quei commercianti erano degli approfittatori, ma non potevamo sfuggire ai loro ricatti. I miei figli volevano studiare, io e mio marito acconsentimmo sia pure coscienti delle mille difficoltà economiche che questa decisione poteva comportare ed ha comportato, senza il loro aiuto nel condurre avanti la masseria, ma abbiamo tenuto duro pur fra mille sacrifici e privazioni. Loro poi, i ragazzi, durante l’estate si adattavano a fare diversi lavori per aiutare la famiglia con i loro guadagni. Insomma siamo andati avanti per qualche anno pur fra notevoli sacrifici fino al pauroso terremoto del ’68.
Quell’anno fu per gli allevatori di bestiame un anno terribile.
Mio marito aveva allevato molti agnelli, ma una mattina li trovò tutti morti sotto la neve che era caduta abbondante durante la notte, inoltre quello stesso anno, forse a causa del terremoto, la produzione di latte fu davvero irrisoria ed i nostri profitti, già insufficienti, calarono ulteriormente. Gli studi costavano ed ai miei figli ogni mese occorrevano quelle 10/20.000 lire per le spese correnti e dovevano uscire fuori ad ogni costo, così andavo da qualche vicina che me li prestava senza difficoltà, poi quando vendevo il formaggio ripianavo ogni debito.
Il dopo terremoto fu apportatrice di nuove ristrettezze, qualcuno, è vero, si arricchì, molti furono in quei giorni di paura, coloro che grazie ad amicizie riuscivano ad ottenere viveri ed altri merci in quantità superiore ai bisogni effettivi della propria famiglia, per molti altri al contrario, quell’avvenimento fu causa di ulteriori disagi economici.
Allora presi a dire a mio marito che in quelle condizioni noi non avremmo potuto continuare a far studiare i nostri figli e che i sacrifici fin qui fatti non sarebbero serviti a nulla, ma volevamo a tutti i costi che loro avessero un’istruzione.
In un primo tempo mio marito s mostrò contrario alla mia idea di emigrare, ma col tempo anche lui dovette cambiare parere ed arrendersi all’evenienza dei fatti, eravamo ormai nell’impossibilità di continuare quella vita disagiata dove i già molti sacrifici non servivano a farci soverchie illusioni.
Avevamo alcuni parenti che da tempo erano emigrati in Inghilterra e scrissi loro prospettando la nostra intenzione di emigrare, qualcuno di, loro fece finta di niente dicendo che non avevano la possibilità di cercare un lavoro per noi, infine mio fratello si interessò per farci avere un contratto di lavoro.
Arrivati tutti i documenti per potere emigrare, mio marito parti immediatamente per l’Inghilterra, io al contrario rimasi a Sambuca ancora per qualche tempo, per sistemare alcuni affari di famiglia.
Dopo quattro mesi infine anch’io feci le valigie e partii per raggiungere mio marito. Iniziò in questo modo il periodo dell’emigrazione in una terra che conoscevo solamente nell’immaginazione e solo perchè me ne avevano parlato i miei parenti nelle loro lettere, ma presto, non appena arrivata, dovetti apprendere con grande amarezza la difficoltà del linguaggio, le diffidenze della popolazione locale nei riguardi dell’emigrazione italiana, le invidie e le gelosie che esistevano fra gli italiani presenti sul posto; se potevano ti davano una mano per affossarti, altro che solidarietà fra connazionali!
Mio marito andava a lavorare nella farm, coltivava i campi ad ortaggi con grande fatica e spirito di adattamento. D’invero era particolarmente dura per lui raccogliere i cavoli o le altre produzioni con il ghiaccio che paralizzava gli arti ed aumentava le artrosi. Guadagnava otto sterline alla settimana pulite, era davvero poco, pertando decisi di cercarmi anch’io un lavoro. Lo trovai in un’azienda agricola in cui si lavorava a cottimo, più cassette riempivo di “mascirummi” più aumentava il guadagno settimanale. In poco tempo divenni così abile da produrre più di tutte. Le anziane dell’azienda, specialmente quelle italiane ne provavano invidia. Dapprima si mostrarono scorbutiche e villane, poi presero a boicottare il mio lavoro rubandomi a volte le cassette che avevo appena riempito, o compiendo piccoli atti di sabotaggio nel mi posto di lavoro allo scopo di mettermi in cattiva luce con i responsabili del reparto.
Ero così amareggiata che un giorno andai dal boss, decisa a licenziarmi da quel lavoro. Alle insistenze sul motivo di quella richiesta di licenziamento, spiegai le mie ragioni. Il boss non volle saperne di licenziarmi, diceva che io producevo per tre di quelle pettegole perciò mi trasferì in una squadra in cui lavoravano tutte le donne inglesi. Dopo qualche tempo dovetti costatare che esse si comportavano con affabilità e gentilezza nei miei riguardi, molto più di come avrei sperato dalle mie connazionali, inoltre apprezzavano il mio lavoro ed il mio modo di fare. Il boss si vantava della mia bravura e questo faceva aumentare l’odio nei miei riguardi di quelle donne napoletane che non amavano lavorare, o di alcuni inglesi che cercavano di approfittare della mia difficoltà a capire il loro linguaggio.
Adesso che lavoravamo in due, ogni mese mettevamo da parte 100 sterline, la nostra vita passava fra lavoro ed ore di riposo a casa, non frequentavamo gli inglesi e d’altra parte comprendavamo poco la loro lingua se non per il necessario sul lavoro, ma non sentivamo questa mancanza. Sul luogo ove abitavamo c’erano negozi di generi alimentari gestiti da italiani, inoltre avevamo sul posto molti parenti con cui scambiare impressioni e consigli.
Avevamo anche comprato una casa, ma i nostri figli ormai diplomatisi con ottimi voti avevano trovato un lavoro che per la rispondenza economica ci riempivano il cuore di gioia. Per riunire la famiglia siamo ritornati a Sambuca.

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AUDENZIO VACCARO

Audenzio Vaccaro era un sambucese che era emigrato seguendo una strada già tracciata da altri lavoratori, era stato costretto ad abbandonare affetti cari ed amici. Egli si era fermato in Svizzera dove aveva trovato un lavoro, una dignità
Il Vaccaro aveva portato dietro di se la speranza di poter tornare al suo luogo natio e di potervi trascorrere la sua vecchiaia felice con i soldi che risparmiava con tenacia ed impegno. Nel suo nuovo ambiente si era fatto presto valere, era diventato abile e rispettato nel lavoro, tra la gente che frequentava, ma la sua sorte era segnata, ed essa si mostrò meno benigna di quella toccata ad altri emigrati. Il giorno 6 ottobre nei pressi di Locarno, il Vaccaro mentre lavorava nei pressi di un muro veniva travolto e seppellito dallo stesso, inutili furono i primi soccorsi portati dai compagni di lavoro.
Una tragedia umana si compiva, la storia di un umile che aveva combattuto con grande valore la sua battaglia contro l’emarginazione sociale, una vita di spegneva lontano dalla famiglia e dagli effetti più cari.
Ecco cosa scrisse di lui Don Carlo De Vecchi scrivendo all’Arciprete di Sambuca per comunicargli la notizia:
“Rev.mo Signor Arciprete, porgo anche a lei le più sentite cordoglianze per l’immatura scomparsa del povero Audenzio Vaccaro, che ha lasciato la famiglia e i compagni di lavoro sconsolati.
Sono profondamente convinto che il sacrificio degli italiani all’estero rimarrà stimolo di fede e di eroismo e di religione a quanti guardano non solo al guadagno materiale, ma anche alla ripresa religiosa della nostra cara patria che ogni giorno benediciamo. Con perfetta stima ossequio e benedico.”

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GLI EMIGRANTI

Valigie piene di stracci
recipienti di miseria
tenuti assieme da spaghi,
tanta gente si affolla
a lasciare le proprie case.
È una processione luttuosa
che si dirige verso un treno
tra imprecazioni e pianti
e pure qualche riso allegro.
Alcuni innoccenti
giocano tra fagotti e pacchi
ignari di una sorte infame
che li vuole legati al piccone,
alla durezza dei campi.
Il treno fischia e avanza lento
attraverso città silenziose e buie,
alle fermate altri fagotti
altra gente dai vestiti neri,
tutti salgono
con una speranza in cuore,
che le lacrime versate
possano mutarsi in canti.

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– Chicago, 20 gennaio 1925

 

Carissimo cognato
conno la presente responto alla vostra lettera e gia sento che godete di ottima salute tutte in famiglia ora lo stesso vi posso asicurare da me e figli.
Dunque caro cognato io ebbe capito tutto lo tenote della vostra lettera di cio che me dici, ti dico io non doveva vendere lo pezzo di lo loco di bandalofina a vostro nipote che non si la meritavano. Io caro cognato ci laio ventoto per aiutare agiungere a pagare le spese dello finanzale di Caterina e di la pietra non mi laio miso in tasca la monita appositamenti ci lo dato gratisi a vostro nipote mi la pagato 100 piezzi e se questi cento piezzi lai che le mandava alle Italia ci rivanano duemila e cinquecento lire, perciò io non ci laio dato gratisi co lo conserto di tutte e due li me figli che non saprecano a queste piccole cose ne ora ne apresso.
Si Domene Dio ci da la salute travagliano e si comprano queste so cose di picolizzi di la quartiglia che diciti di la zia Tresa io non ni saccio, queste cose non sono nometatto.
Ora caro cognato per venire a li me casi, me fratello Paolo mi la mandato a dire che ci li pagano 13 milalire e non ci li voli cedere io non saccio come sono cominati li cosi io lo lascio nella propria libertà, prima di ogni cosa me fratello Paolo si divi circari la casa per starici lui stesso io non prometto ma varrestare e cuminciamu chi poi la vinnita si fa collo patto di starici sino alla morte io non ne saccio come voli disporre e io non lo voglio dispiacere giosto che si trova solo e più disperato di voi, io lo lascio sempre dico nella libertà per quanto allo prezzo quello che si po tirare si tira dopo che mio fratello di vinnili io poi ci lo manno a dico; canciu vo fari co la monita. Ora caro cognato mi consolo che sento che avete la figlia zita e speriamo riuscire un bono matrimonio. Puro me figlio Salvatore si trova pronto che se ce la volonta di D. Dio vole alla figlia di me fratello Adenzio e cianno tanto piaciri tutte in famiglia ma si farà alla stagione che viene e credo che voi facite lo stesso poi ci lo manto un piccolo fiore camora caro cognato non posso perchè diverno come già sapete stanno atento alla strofa massimamente che ora sono fatto grande, logicamente resiste meglio al fredo me figlio Salvatore travaglia sempre secotivo ma ora lavora per lui stesso, pienza per li spisi di lu matrimoniu. Caro cognato la prazione di li case che erano di la bonanima di me sorella Lucia nun sacciu si fazzu tistamentu e li lasciu a me frati Paulo o puramenti re-stanu così io non lo sò se me fratello Paolo e contente a ventere li casi, la monita si mette alla banca del governo e si faranno due librette una per conto di me fratello Paolo e la me metà per conto di Vito Fiorenza e quantu navi di bisigno si la va a pigliari, lu librettu e sempre lu stessa pi la morti e la vita
Ora nun avennu più chi dire vi dono tanti saluti a vui e la vostra sposa, vi bacianu li manu li me figli, vi salatanu li me fratelli e dugnu la binidizioni a tutti li vostri figli, mi salutati a me fratello Paolo, mi salutati a Gaspare ligunta ora v1 salutu veramenti e mi firmu che sono il vostro cognato.

Vito Fiorenza

Addio Addio

pronta risposta

 

 

 

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– Chicago

 

Caro cognato

di lo loco di bantalofina anche lanno scorso lo mandastivo a dire però io a vostra sorella Anna ci lo ditto quello che voi desiderate e vostra sorella maditto che ce pare malo levallo a vostra sorella e perciò io non ne parlavo più ora vi dico ce lo ditto nuovamente me disse che di losofrotto che fa ogni anno ve ne pigliate una meta per uno lo coltivate assieme e puramente ve lo dividete una meta per mano. Come faccio la lettera a vostra sorella Antonina ci lo mando a dire questo stessora non avendo altro da dire vi salutamo io assieme comme vostra sorella auguri a vostra moglie vi bacianu li manu li me figli Salvatore e Calogero ora damo la ssa. Benedizione alle vostri figli vi salutanu Santo e Pippino me salutate a me fratello Paolo e sorella Lucia e ci dicete che la lettera non laio ricevuto e ci riscontrano e puro la lettera di vostra sorella Antonina lebbe recevuto e me la salutate tanto lo salutate so figlio Santo e genero ora salutamo a tutti li parenti e vicini e tutti quelli che domandano di noi vi salutamo novamente e mi firmo che sono io il vostro cognato e vostra sorella Anna che vi ama da vero core.

Addio Addio

prima risposta

 

 

 

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– Chicago

 

Caro fratello e cognata,
da molto tempo ti scrivo questa lettera per darti notizia della mia perfetta saluti unito con mio sposo e figlie, e così spero sentire da te

Vito Fiorenza


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